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Ottobre 1979. Il processo ai radicali Fabre-Bandinelli e il «buco» di Mario Appignani

Redazione Spazio70

«L'eroina? Bisogna liberalizzarla, solo in un secondo momento c'è da pensare all'hashish e alla marijuana!»

Ottobre 1979. Al tribunale di Roma si svolge la prima udienza che vede protagonisti Jean Fabre e Angiolo Bandinelli, due militanti del partito radicale, accusati di aver distribuito pubblicamente «spinelli» alla marijuana per sostenere, con un gesto clamoroso, la «campagna di liberalizzazione della canapa indiana». Una vicenda che coinvolge, suo malgrado, anche Luigi Petroselli, sindaco di Roma, al quale il consigliere comunale Bandinelli aveva offerto una «sigaretta drogata». L’udienza non basta, però, a raggiungere il verdetto: il tutto viene rinviato al successivo 6 novembre, occasione nella quale è prevista la testimonianza dello stesso Petroselli.

Fabre e Bandinelli, intanto, tornano in libertà provvisoria, ma l’attenzione dei giornali, e degli stessi presenti al processo, viene turbata da quello che la stampa bolla come «sconcertante episodio»: Mario Appignani, esponente degli «Indiani metropolitani di Roma», meglio conosciuto come «Cavallo pazzo», spuntato chissà da dove, si buca e si inietta in aula – tra urla, proteste, incredulità – una sostanza di cui non è subito chiara la natura. Una scena che ha del surreale con Appignani che prima viene beffeggiato poi portato via di peso dai poliziotti.

«SE NON SCRIVETE UNA RIGA, QUESTO S’AMMAZZA»

Ma andiamo con ordine. Tra le molte persone costrette ad aspettare fuori dall’aula l’esito dell’udienza del processo Fabre-Bandinelli c’è appunto lui, Mario Appignani: si toglie la giacca, si scamicia un braccio e senza che neppure un agente abbia l’idea di intervenire si inietta di fronte ai flash dei fotografi una dose, forse di eroina. «Cavallo pazzo», visibilmente compiaciuto, dopo aver ringraziato per l’attenzione ricevuta, comincia a urlare che «bisogna liberalizzare l’eroina» e che «solo in un secondo momento c’è da pensare all’hashish e alla marijuana».

Subito volano battute sarcastiche e c’è chi si rivolge a un gruppo di poliziotti: «Arrestatelo», dice qualcuno, «si può sapere che cosa state aspettando?». C’è anche chi deride Appignani con un «piantala, buffone» e chi, come Marco Pannella lo compatisce: «Se non scrivete una riga», dice il leader radicale presente all’udienza dei militanti Fabre-Bandinelli, «questo si ammazza». Come tragicomica conclusione dell’incursione c’è il volto di «Cavallo pazzo» che si contrae per il dolore: una mano sul petto e un grido. Appignani si sente male, gli cola sangue dalla bocca: qualcuno ipotizza un pugno in faccia, per altri è lo stato deficitario dei suoi polmoni. Dopo lunghi minuti di concitazione viene impacchettato e portato via: prima tappa il commissariato, poi l’ospedale. Al giudice il compito di accertare la vera natura della sostanza utilizzata dall’ex indiano metropolitano: eroina o cos’altro?

«UN RAGAZZO ALL’INFERNO»

Ma chi è Mario Appignani? Nato a Roma il 13 dicembre 1954 da madre prostituta, il periodo che va dall’infanzia alla maggiore età del futuro «indiano metropolitano» è scandita da ciò che lo stesso Appignani definirà come un «viaggio allucinante in 19 case di rieducazione». La vicenda verrà narrata dallo stesso «Cavallo pazzo» in un libro autobiografico uscito a metà anni Settanta, intitolato «Un ragazzo all’inferno», prefato da Marco Pannella. Personalità proteiforme, «Cavallo pazzo» viene descritto, da chi lo conosce, in maniere diverse: sognatore, ladro, mitomane, artista, malato. Alcuni lo evitano a ogni costo, altri lo stanno ad ascoltare rapiti, altri ancora chiamano la polizia.

Appignani si dimostra, col tempo, specialista nell’eludere ogni tipo di blocco: per compiere i suoi «blitz» si travisa da prete, cameriere, commissario di polizia. Episodi che trovano riferimenti puntuali nel già citato «Un ragazzo all’inferno»: un tesserino da finanziere, banalmente trovato per terra, viene utilizzato dal giovane Mario per andare al cinema gratis. Un lasciapassare non solo per poter godere delle pellicole dei grandi registi, come Antonioni o De Sica, ma anche per entrare nel mondo dei grandi o almeno dei cosiddetti «rispettabili»: quel «mi sento importante», più volte ripetuto nelle pagine del libro, che per Appignani rappresenterà una sorta di mantra di tutta una esistenza.