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«Ci serve una barca più grossa». Lo squalo di Spielberg e la psicosi nei mari italiani del ’76

Redazione Spazio70

Il mostruoso «bestione» di Civitavecchia si rivelerà un innocuo squalo volpe

«È ferito, sul dorso ha un frammento di arpione lanciatogli da qualche pescatore che l’ha intercettato in precedenza. Ci ha impressionato per la sua lunghezza, inconsueta per i nostri mari. Dargli la caccia senza un’attrezzatura adeguata sarebbe stato inutile e pericoloso. Bestioni di quella taglia possono attaccare anche le barche ed hanno una forza tale da mandarle a picco».

A rilasciare queste dichiarazioni alla stampa, in merito all’avvistamento di un gigantesco e terrificante squalo, non è Martin Brody, capo della polizia di Amity. I numerosi cronisti, accorsi ad intervistare i testimoni dell’inquietante apparizione marina, non si trovano sull’immaginaria isola della costa atlantica ma al porto di Civitavecchia. A parlare è un pescatore della zona.

«UN BESTIONE DI DIECI METRI»

Siamo nella primavera del 1976 e lo strepitoso film di Spielberg, uscito nel nostro Paese da circa cinque mesi, è ancora disponibile presso alcune sale. Secondo soltanto ad Amici miei di Mario Monicelli, per la stagione cinematografica ’75 – ’76 Lo squalo si rivela un autentico successo anche in Italia. È un film che hanno visto tutti, con non poche conseguenze, nell’immaginario collettivo, all’avvicinarsi della stagione estiva. Da alcuni giorni ad alimentare la fobia del mostro marino vi sono numerose segnalazioni giunte alla capitaneria di porto di Civitavecchia. Uno squalo di circa dieci metri sarebbe stato visto aggirarsi minaccioso nelle acque di fronte agli scarichi della centrale Enel. Alle prime telefonate i militari non hanno dato alcun peso. Con il passare dei giorni le segnalazioni si sono moltiplicate, lasciando spazio a pochi dubbi.

I quotidiani nazionali non si lasciano sfuggire questa ghiotta occasione. Il Secolo XIX del 21 maggio 1976 cita proprio il famigerato Carcharodon carcharias, vero protagonista del film di Spielberg:

«Al largo di Civitavecchia è stato avvistato uno squalo. Su tutta la costa che va da Ostia all’Argentario è scattato l’allarme. Le notizie raccolte affermano che il pescecane è di proporzioni eccezionali: sembra che si tratti addirittura del famoso “squalo bianco”. Lo squalo misurerebbe circa dieci metri di lunghezza. Ha sul dorso uno spezzone che potrebbe essere quel che resta di un arpione. Le altre caratteristiche, comunicate da chi ha potuto osservarlo, classificherebbero lo squalo come un “Carcharodon carcharias”. Tra i pescatori è conosciuto come “morte bianca”. È carnivoro, voracissimo e pericoloso in fase di attacco. Il pensiero va all’ancor recente film “Lo squalo” e in particolare all’episodio finale: quello del barcone sfasciato dal mostro a colpi di coda, di dorso e con l’enorme bocca».

Non è più rassicurante il Corriere d’informazione:

«Uno squalo di notevoli dimensioni incrocia minaccioso al largo della costa italiana nella zona di Civitavecchia e Ladispoli. La paura si diffonde e si teme possa diventare psicosi. Il film che recentemente è stato proiettato in tutte le sale italiane ha la sua parte di peso nel diffondersi di questo stato d’animo. Lo squalo c’è, non ci sono dubbi, ancora però nessuno è in grado di dire con esattezza di quale specie si tratti. Da qualche testimone si sostiene che si tratti di un mostro lungo dieci metri. Secondo questa versione si tratterebbe di uno dei pescecani più feroci che si conoscono e che viene solitamente nominato con l’eloquente nome di “morte bianca”. Qualche pescatore afferma addirittura di essere sfuggito miracolosamente con la sua imbarcazione alle cariche dello squalo che avrebbe un arpione infilato sul dorso».

Approfondimenti, «scoop», editoriali. In tutta Italia esplode un fenomeno mediatico che cavalca il successo cinematografico del terrore marino. Nel tentativo di arginare la deriva sensazionalistica interviene il tenente Lolli, della capitaneria di porto di Civitavecchia:

«Bisogna ridimensionare il fenomeno – risponde a un inviato del Corriere della seraaltrimenti qui non si vive più. È vero, lo squalo c’è, l’ho visto anch’io ma non si tratta di un bestione lungo dieci metri come qualcuno ha imprudentemente affermato e non ha un arpione piantato sul dorso. È lungo circa cinque metri e non siamo ancora in grado di dire se si tratti davvero di un cacciatore di uomini o di uno dei tanti squali, per lo più innocui, che di tanto in tanto si avvistano nel Mediterraneo al largo dei porti. Ad ogni modo gli stiamo dando la caccia con tutti i nostri mezzi a disposizione».

Sono infatti numerose le motovedette impegnate nella ricerca. Nei pressi della centrale elettrica di Torrevaldaliga vi è anche chi, ogni mattina, prepara una succulenta colazione al grosso pesce lanciando in mare poltiglie sanguinolente e frattaglie di macelleria, con la speranza di attirare lo squalo in una trappola mortale.

«Gli stiamo dando la caccia – afferma un ufficiale impegnato nelle ricerche – e speriamo di prenderlo al più presto. Non tanto per i danni che può provocare, quanto per evitare di vedere gente terrorizzata e spiagge deserte».

La situazione che si è creata a Civitavecchia è molto simile a quella del film di Spielberg. In questo momento ci troviamo proprio in quel punto della sceneggiatura in cui i cittadini si organizzano per dare la caccia alla belva marina. Manca solo un elemento fondamentale: le vittime. Già, perché questo squalo, braccato in lungo e in largo da marinai, militari e pescatori, non ha fatto del male a nessuno. La sua unica colpa è quella di possedere un’inquietante pinna dorsale che evoca scenari sanguinosi e raccapriccianti, per giunta in un periodo storico in cui gli squali, che già da tempo godono di pessima reputazione, sono ormai inevitabilmente associati al terrore derivante dall’evocativo tema musicale di John Williams.

«LA GENTE? A MALAPENA HA IL CORAGGIO DI METTERE I PIEDI IN ACQUA»

Il signor Vincenzo e i suoi figli

Il signor Vincenzo e i suoi figli

E proprio come nel film in questione, non mancano gli avventurieri che alla fine riescono a imbattersi nel temutissimo animale. Si tratta del signor Vincenzo e dei suoi due figli. Lo «scontro finale» avviene a tre miglia dalla costa, ma questa volta non sono necessari arpioni e barili, né bombole o gabbie anti-squalo. Il signor Vincenzo utilizza una semplice rete per catturare il pescecane, o meglio, il «pescevolpe». Si tratta infatti di un Alopias vulpinus, meglio noto come squalo volpe, lungo circa quattro metri. Un esemplare considerato innocuo per l’uomo pur essendo dotato di una pinna caudale particolarmente grande con la quale l’animale marino è solito tramortire le proprie prede. Un’arma che però non è riuscita ad avere la meglio contro i pescatori civitavecchiesi.

Ma gli avvistamenti non finiscono qui. Pochi giorni dopo tocca a Genova. A seminare il panico tra i pescatori è nuovamente un grosso squalo non meglio identificato. Da Stampa sera del 31 maggio 1976:

«Uno squalo di grosse dimensioni è stato avvistato stamane da numerosi pescatori dilettanti circa cinquanta metri al largo della diga foranea del porto di Genova. I pescatori, che si trovavano sul posto a bordo di numerose barche, sono rimasti terrorizzati alla vista dello squalo, la cui lunghezza è stata unanimemente dichiarata attorno ai cinque-sei metri, per cui sono rientrati immediatamente in porto dove hanno dato l’allarme. È uscita in mare la motovedetta dei carabinieri, che ha perlustrato a lungo la zona in cui era stato visto lo squalo. Anche i militari, durante le ricerche, hanno avvistato il grosso pescecane, la cui pinna spuntava dalla superficie del mare per circa cinquanta centimetri. I carabinieri hanno inseguito lo squalo per qualche tempo, poi questo si è inabissato scomparendo alla vista. Secondo l’ipotesi più probabile, il pescecane sarebbe arrivato davanti al porto seguendo la scia di una nave proveniente dall’Atlantico».

Contemporaneamente, ad Alassio, qualcuno in spiaggia grida «uno squalo!» ed è panico tra i bagnanti:

«Gente che a malapena aveva il coraggio di mettere i piedi in acqua, mamme prontissime a bloccare ogni velleità natatoria dei bambini, qualcuno, infatti, aveva detto di aver avvistato un pescecane di quattro metri, che poi è diventato di cinque e man mano che il racconto passava di bocca in bocca, si ingigantiva. Vero o non vero l’avvistamento, il panico c’è stato per migliaia di persone assiepate sui sette chilometri della Baia del sole. Mentre nella zona alassina si stava già per organizzare la caccia al “mostro”, un pescecane — si dice di notevoli dimensioni — ha fatto la sua comparsa davanti alla diga foranea del porto di Genova. L’allarme qui è stato dato da una imbarcazione di pescatori, che rientrava. È uscita la motovedetta “Sandulli” dei carabinieri. I militari hanno avvistato una pinna a fior d’acqua ed hanno aperto il fuoco. Lo squalo è scomparso e s’è mantenuto sotto per una buona mezz’ora, poi lo hanno di nuovo avvistato mentre se la filava al seguito di un piroscafo (è noto che i pescecani i seguono le navi di grosse dimensioni, perché si nutrono dei rifiuti gettati sotto bordo). Nuovo inseguimento dei carabinieri, altre raffiche di mitra e del pescecane non si è saputo più nulla. Forse è morto.

Ad accrescere i timori dei bagnanti, ecco un’altra notizia che viene dalla zona finalese. Stamattina, tre appassionati di mare savonesi erano usciti con una barca di 8 metri. Si trovavano in mare a circa 15 miglia dalla costa quando, a pochi metri dalla prua, hanno visto emergere un eccezionale mostro: secondo Giacomo Berruti si trattava di un capodoglio. Era lungo almeno 25 metri — ha detto l’appassionato motonauta — la testa tozza. Sono convinto che era un capodoglio, perché ad un certo punto ha emesso come un soffio, un fischio quasi come quello di una locomotiva, il capodoglio si è poi immerso e quelli sulla barca lo hanno seguito, vedendolo nuotare alcuni metri sotto la superficie. Poi è scomparso. Gli avvistamenti, però, non si fermano qui: alcuni giorni or sono, nella rada di Savona, alcuni pescatori hanno catturato una verdesca di 1 metro e 70. Due giorni fa, a Vado, è stato catturato uno squalo di due metri. La scorsa settimana un altro pescecane, di circa due quintali è caduto sotto i colpi di fiocina di alcuni pescatori di Rapallo. Dice un pescatore di Noli: “Gli squali, piccoli o grandi, ci sono sempre stati, nel Mar Ligure come nel Mediterraneo, ma non attaccano l’uomo”».
(La Stampa, 1° giugno 1976)

GLI ATTACCHI MORTALI IN ITALIA

Un Carcharodon carcharias (grande squalo bianco)

Un Carcharodon carcharias (grande squalo bianco)

Da Nord a Sud, in tutta Italia, iniziano a moltiplicarsi avvistamenti, più o meno attendibili, in diverse località balneari. Con l’intento di placare l’ingiustificato terrore scaturito tra i bagnanti, il Corriere d’informazione pubblica alcune rassicuranti dichiarazioni sulla «situazione squali» del nostro Paese rilasciate dal professor Enrico Tortonese, direttore del museo di storia naturale di Genova, una delle massime autorità italiane nell’ambito dell’ittiologia.

«Il più grosso squalo dei nostri mari — afferma Tortonese — è il cetorino, o pesce elefante, di cui si prendono ogni tanto individui giovani (da tre a cinque metri: gli adulti, che si pescano nell’Atlantico boreale, arrivano a tredici metri). Questo pesce però è del tutto innocuo: ha denti minutissimi e si ciba di piccoli organismi nel plancton. Da moltissimi anni mi interesso di squali e ho con me questionari da compilare e spedire all’istituto scientifico americano specializzato sugli studi dei pescicani, ma non ho mai avuto occasione di spedirne uno: non ho mai avuto infatti notizia di un vero e proprio attacco di squalo all’uomo».

A giudicare dalle cronache degli ultimi trent’anni che precedono il 1976, attacchi di squali ai danni di esseri umani risultano in realtà anche in Italia, ma sono effettivamente molto rari. Tra questi, gli eventi mortali di cui abbiamo notizia appaiono particolarmente controversi, come la vicenda di Anna Wurm, nuotatrice austriaca in vacanza presso un albergo di Sorrento, che nel 1951 fu descritta dai giornali come «la giovane donna sbranata da uno squalo» nelle acque della costiera amalfitana. Fu un’amica della Wurm, allontanatasi a largo con lei, a rientrare a riva in preda al panico per dare ad altri bagnanti l’orrenda notizia. Le ricerche del corpo da parte delle forze dell’ordine si rivelarono inutili. Della donna non vi era più traccia, neppure un minuscolo brandello. La testimone parlò di un grosso squalo che avrebbe trascinato sott’acqua la ragazza. Il caso sembrò chiudersi così ma quattro anni più tardi la nuotatrice austriaca fu vista negli Stati Uniti in compagnia di un uomo, lo stesso che, con ogni probabilità, la prelevò segretamente in barca (al posto dello squalo) con la complicità dell’amica.

Certamente più credibile è invece il caso del Circeo. Nel settembre del 1962 Il fotografo subacqueo Maurizio Sarra, redattore della rivista Mondo sommerso, morì per scompenso cardiaco all’ospedale di Terracina dopo aver riportato gravissime ferite alle gambe nel corso di un’immersione presso la Secca del Quadro. Un amico in sua compagnia, che effettuò il primo soccorso, affermò di aver visto in acqua una sagoma scura, dalla forma di un grosso squalo, poco prima di trascinare Sarra sulla barca, ormai riverso in una grossa chiazza di sangue. Anche in questo caso vi fu chi espresse non pochi dubbi sulla dinamica dell’accaduto, parlando di un possibile incidente con un’elica.

Provando ad andare molto più a ritroso nel tempo, alla ricerca di attacchi mortali nelle acque italiane, incappiamo nella vecchia vicenda di Varazze, risalente agli ormai lontanissimi anni ’20 del ‘900. La vittima è un ventenne milanese di nome Augusto Casellato, del cui corpo furono rinvenuti soltanto alcuni brandelli di carne attaccati a stralci del costume. Riportiamo di seguito la testimonianza dell’amico che lo accompagnò nella sua ultima nuotata. Dal Corriere della sera del 25 luglio 1926:

Augusto Casellato

«Ad alcuni giornalisti il superstite ha raccontato oggi come si svolse la tragica scena. “Dopo aver percorso circa un chilometro — ha detto il Baldi — ad un certo punto mi ero voltato, per vedere se il Casellato, che mi seguiva a circa sei metri, ed ansimava già molto forte, riusciva a tenermi dietro. Nel punto dove il mio amico avrebbe dovuto trovarsi, vidi invece un ribollimento di acque e qualche spruzzo di spuma, poi, con un guizzo rapidissimo emergere, per l’altezza di circa un metro, un’enorme coda nera di pesce che subito si abbassò, mentre le acque tornavano immediatamente tranquille. Per quanto la visione fosse stata brevissima — continuò il Baldi — potei distinguere benissimo le pinne caudali a ventaglio, che appartenevano al pesce, e che, dovevano avere larghezza di circa un metro. Si può quindi calcolare che lo squalo misurasse almeno otto metri di lunghezza. Paralizzato dal terrore, e conscio di quello che ara accaduto al mio amico, e anche di quello che sarebbe potuto accadere a me, per qualche minuto rimasi immobile senza sapermi decidere sul da farsi; poi, vista una barca a duecento metri, mi misi a urlare disperatamente per invocare soccorso, dirigendomi a grandi bracciate verso quel punto di salvezza. Pochi minuti dopo salivo a bordo e raccontavo quello che avevo visto».

L’ultima aggressione mortale ad opera di uno squalo, di cui si ha notizia nel nostro Paese, risale al 2 febbraio 1989. Luciano Costanzo, sub di 47 anni residente a Piombino, morì dilaniato da un grosso pescecane in prossimità del golfo di Baratti, come accertò anche la magistratura al termine di una lunga indagine. Difatti, anche in quella occasione, non mancarono gli scettici. Costanzo si era imbarcato per una battuta di pesca con l’amico Paolo Bader ed il figlio diciannovenne Gianluca. Dopo essersi tuffato, il quarantasettenne non fece mai più ritorno sull’imbarcazione. Questa che segue è la testimonianza del figlio:

«Ho visto le due pinne dello squalo sbucare quindici metri davanti alla barca, ho azionato il gas del motore per raggiungerlo e un attimo dopo ho visto emergere mio padre a pochi metri dallo squalo. Il pescecane lo ha circondato, gli è passato due volte intorno, poi lo ha attaccato. Lui è riuscito a scansarlo una volta, poi al secondo attacco ha cercato disperatamente di difendersi dopo aver chiesto aiuto. L’ho visto scomparire in un attimo. Lo abbiamo cercato lì intorno. Poi siamo tornati in porto a Piombino e sono scattate le ricerche».