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La vita a tutto gas di James «The shunt» Hunt

Redazione Spazio70

I genitori avevano sognato per lui una tranquilla vita da medico: niente di più lontano da ciò che l'inglese sceglierà per sé stesso

James Simon Wallis Hunt nasce a Londra il 29 agosto 1947, in una famiglia borghese. I genitori sognano per lui una vita tranquilla, un futuro da medico, esattamente l’opposto di ciò che James sceglierà per sé stesso. Una costante, quella del conflitto tra desideri genitoriali e propensioni filiali, che è propria della vicenda umana di tanti piloti di F1 e artisti dal carattere indomito. La vita di questo giovane inglese procede relativamente tranquilla, nonostante le prime avvisaglie di quello che sarà il James Hunt maturo: una ricerca che approda al capolinea quando il biondo ragazzo assiste a una gara automobilistica nel circuito di Silverstone, in Inghilterra. Niente di speciale: si tratta soltanto di «Mini», non certo gli spettacolari bolidi del Circus della F1, ma qualcosa di sufficiente a far intravedere al giovane Hunt la strada, la sua strada, per essere qualcuno nel mondo. Non un medico infelice, o addirittura cattivo, ma un uomo realizzato al costo di disattendere le direttive paterne. Immaginatevi, infatti, come possa sentirsi un padre che un bel giorno si senta dire dal figlio: «Voglio diventare un pilota professionista». Parliamo di tempi in cui correre significava davvero rischiare ad ogni gara; nessuna certezza, nessuna garanzia di successo, solo la passione, assieme alla certezza di rimetterci tanti soldi e forse la vita.

JAMES «THE SHUNT». LA DECISIVA FIGURA DI LORD ALEXANDER HESKETH

E’, insomma, quella domenica di metà anni Sessanta a far decidere ad Hunt chi voler essere, a dimostrazione che non sempre si è predestinati fin dal principio: a volte la storia di una esistenza può essere illuminata da un caso, dal semplice fatto di essere presenti a un evento. Hunt è naturalmente disposto a fare la gavetta per tener fede alle sue nuove aspirazioni; inizia proprio dalle Mini, quelle piccole auto da lui ammirate, per la prima volta, a Silverstone: poi passa alla Formula Ford dove, al netto di qualche problema dovuto all’inesperienza, riesce presto a ben figurare. Siamo nell’estate del 1969: Hunt ha ormai l’opportunità di misurarsi col difficile mondo della F3, alla guida di una Brabham Bt21, concludendo la sua prima gara all’ottavo posto. Qualche settimana più tardi, praticamente da esordiente, conquista un terzo posto in una gara vinta dal futuro bicampione del mondo Emerson Fittipaldi. In questi mesi, decisivi per la carriera di Hunt, il pilota inglese mette già in mostra tutte le sue caratteristiche agonistiche: grande coraggio, uno stile di guida ruvido, piede pesante e una certa irruenza che rischia di precludergli maggiori fortune.

A codificare il tutto lo spiacevole nomignolo di The shunt, gioco di parole che, rifacendosi al cognome di James, indica una pericolosa tendenza a sfasciare le auto. Una nomea spiacevole per chi vuole guidare ad alti livelli, ma ad aiutare Hunt c’è anche la nazionalità; il fatto di essere inglesi garantisce privilegi nel Circus della F1, così, nel 1971, alla guida di una March, ha modo di passare alla F2. Nel 1972, Hunt ha già 25 anni e la sua scuderia gli comunica la volontà di appiedarlo per far posto a Jochen Mass, che dieci anni più tardi sarà protagonista dell’incidente costato la vita a Gilles Villeneuve. La carriera dell’inglese sembra giunta al capolinea, ma la fortuna, che notoriamente ama gli audaci, non può abbandonarlo così. La fortuna prende infatti le sembianze di Lord Alexander Hesketh, figura quasi cinematografica di nobile inglese, giovane, ricco e anticonformista: è lui a rilanciare la carriera del biondo pilota acquistando una March 731 che garantisce ad Hunt un inaspettato esordio in F1. In pochi mesi James, da quasi ex pilota di F2, si ritrova nel dorato Circus come prima guida di una scuderia soltanto apparentemente effimera: Hesketh se ne frega degli sponsor, sostenendo che la sua squadra rappresenta l’Inghilterra e i colori nazionali non possono essere oltraggiati da marchi e annunci pubblicitari.

IL 1976, UN CAMPIONATO MONDIALE DIVISO IN DUE PARTI

Lo strano team ha al suo interno figure che avranno un ruolo, all’interno del Circus dei decenni successivi: non solo Hunt, ma anche l’ingegnere Harvey Postlethwaite che cura progettazione e sviluppo della vettura. Se Hesketh e Hunt sembrano due pazzi, i risultati cominciano però a essere lusinghieri: due podi e un quarto posto a Silverstone nella stagione 1973 e altri tre podi (Svezia, Austria e ancora Usa) nel 1974. La prima vittoria ottenuta da Hunt in F1 risale al 1975, sempre con la Hesketh (Olanda) più ulteriori tre podi (Argentina, Francia e Austria) e un lusinghiero quarto posto finale nella classifica di quell’anno. Hunt è ormai riconosciuto come uno dei piloti più veloci della F1: piace il suo stile di guida aggressivo e la sua personalità, fatta di esibizionismo e anticonformismo. Ha sempre donne bellissime al seguito e anche lui fa la sua figura: più un modello che un pilota, un bel vedere se confrontato a tipi come Fittipaldi (detto «O Rato»). Hunt è insomma pronto per competere alla pari con i più forti piloti compreso il ferrarista Niki Lauda, neo campione del mondo. Hesketh sta finendo i soldi, ma resiste ancora per un paio d’anni, e Hunt ha il secondo grande colpo di fortuna della sua carriera: la McLaren rinuncia proprio a Fittipaldi, che va alla Copersucar del fratello Wilson, e offre un volante ad Hunt per la stagione 1976.

La M23, sviluppata dal duo Coppuck-Barnard, è una vettura competitiva, al pari della Ferrari 312 T2 di Lauda. Ci sono, quindi, tutte le premesse per un campionato del mondo estremamente emozionante con due piloti dalle caratteristiche opposte, ma complementari: amici fuori dalla pista, perfetti per dividere tifoserie e media. Il campionato mondiale 1976 può essere diviso in due parti: la prima, che ha preceduto il disastroso incidente di Lauda al Nurburgring, e la seconda in cui Hunt recupera buona parte dello svantaggio accumulato nelle prime gare. Il Nurburgring, a metà anni Settanta, è ancora un circuito pericolosissimo: lungo quasi ventitré chilometri, ha visto morire decine di piloti di varie categorie agonistiche. La sessione di prove del Gp di Germania 1976 vede le prime tre posizioni occupate da Hunt, Lauda e Depailler, velocissimo pilota francese a bordo della Tyrrel P34 a sei ruote. Nel giorno di gara, le incerte condizioni meteo costringono a una complessa gestione delle gomme: in un primo momento piove, e quasi tutti decidono di utilizzare pneumatici da bagnato, ma poi il tempo migliora e si deve tornare alle gomme da asciutto. Lo fa anche Lauda, che ripartito come un fulmine per recuperare lo svantaggio accumulato commette un errore alla curva Bergwerk forse per una toccata di troppo su un cordolo. La tesi della rottura di una sospensione della Ferrari 312 T2 viene accreditata da alcuni, ma respinta da altri tenendo conto della linearità della frenata compiuta da Lauda nel tentativo di minimizzare l’impatto.

«MI PAGANO PER CORRERE, NON PER AMMAZZARMI»

Il drammatico incidente occorso a Lauda consente il recupero di Hunt già a partire dalla gara del Nurburgring, vinta dall’inglese, che poi si ripete in Olanda, Canada e Usa. Il campionato 1976 si decide, dunque, all’ultimo gran premio, quello del Giappone: Lauda ci giunge con un vantaggio di tre punti (in realtà quattro, perché l’inglese vantava una vittoria in più). Si corre sotto una pioggia battente, con enormi problemi di visibilità: la commissione piloti, della quale fanno parte sia Lauda che Hunt, dà parere contrario allo svolgimento della gara, ma Bernie Ecclestone, e gli altri organizzatori, insistono per far sì che il gran premio venga regolarmente disputato. La decisione viene infine presa: disputare la gara alle 15,10 sulla metà dei giri normalmente previsti. La gara di Lauda dura appena due giri, perché l’austriaco decide di tornare ai box: «Mi pagano per correre, non per ammazzarmi», saranno le sue emblematiche parole.

Hunt si classifica al terzo posto, supera Lauda per un punto e conquista il campionato del mondo. Da lì in poi, una parabola discendente quasi inevitabile per un tipo come lui: Freddie Hunt racconterà di «una vera e propria maratona di sesso con 35 hostess nell’hotel Hilton, a Tokyo» portata a termine dal padre dopo la vittoria del mondiale. Lo stesso Enzo Ferrari giudicherà la carriera di Hunt come paradigmatica: un pilota talentuoso che «distratto e logorato dalla fama, dagli agi e dagli impegni sempre più pressanti, perde quel tocco magico e si avvia prima o dopo a un lento ma inesorabile declino». Tuttavia il 1977 è un anno ancora buono per l’inglese, che fa a tempo a centrare ben tre vittorie (Silverstone, Usa e Giappone) con un onorevole quinto posto nel mondiale. Gli ultimi due anni sono praticamente da ex pilota: il primo, ancora alla guida della McLaren, è un calvario con un solo podio (in Francia), mentre nell’anno successivo, alla guida della non competitiva Wolf WR7, Hunt colleziona solo ritiri prima dell’ultimo e definitivo. «Lascio ora e definitivamente perché – nel mondo della F1 – l’uomo non conta più!», dirà nell’atto di appendere il casco al chiodo.

Saranno le sue dichiarazioni finali: un po’ pretestuose, forse, ma alla lunga profetiche se si considera l’evoluzione di auto e piloti. L’amore di Hunt per una F1 umana, nella quale è l’uomo ad avere il sopravvento sul mezzo meccanico e non l’opposto, è testimoniato però dal fatto di essere stato uno dei primi mentori di Gilles Villeneuve: il canadese avrà la possibilità di esordire nel Circus proprio grazie alla McLaren, nel 1977, con un contratto da precario, prima di approdare alla Ferrari. Messo sotto contratto dalla BBC per il commento delle gare di F1, Hunt si distingue per i commenti caustici nei confronti degli ex colleghi e per qualche ubriacatura di troppo. A latere dei numerosissimi flirt anche un paio di matrimoni, conclusi in perfetto stile-Hunt: il primo con Suzy Miller, che lascia il pilota dopo un po’ per l’attore Richard Burton, poi Sarah Lomax che chiederà il divorzio a causa dei continui tradimenti. L’ex The shunt morirà a quarantasei anni forse per un infarto poche ore dopo l’ennesima dichiarazione d’amore, stavolta fatta alla ventenne Helen Dyson: chi lo troverà, riverso sul pavimento della cucina, dirà che aveva un sorriso stampato sul volto.

 

Articolo originariamente scritto per Rivista Contrasti