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Jean Bedel Bokassa, il «Napoleone» nero

Redazione Spazio70

Da un reportage di Alberto Baini per «Epoca»

Sta seduto su un trono ornato con zanne di elefante. Tra le mani stringe un bastone di maresciallo. Feluche, spadini, nastri, croci e medaglie, complicano e opprimono le sue uniformi ogni giorno di più. Il quattro dicembre, alla fine di un pranzo di tremila persone, Jean Bedel Bokassa, presidente a vita della Repubblica Centro Africana, si è alzato in piedi e ha annunciato ai suoi sudditi che aveva deciso di nominarsi imperatore. Il corpo diplomatico ha dovuto rendergli omaggio. Un complicato protocollo è stato studiato da un’ora all’altra per i suoi dignitari e per il suo popolo. Dovranno rivolgergli la parola in terza persona. E’ proibito dirgli di no. Quest’uomo, che d’ora in avanti nessuno potrà avvicinare «più di sei metri» e che negli atti ufficiali della repubblica verrà chiamato «maestà imperiale», è un ex sergente delle truppe coloniali francesi. Ha 55 anni, è nato in un villaggio chiamato Bolangui. Gli insegnarono a leggere e a scrivere i buoni padri di una missione che lo raccolsero orfano quando aveva sei anni e lo allevarono in quella sonnolenta colonia con le preghiere, il tricolore, la Marsigliese, le vite di San Luigi e di Napoleone.

AMBASCIATE E SERVIZI SEGRETI DI MEZZO MONDO SI MOSSERO PER CERCARE LA FIGLIA DI BOKASSA A SAIGON

Nessuna traccia sicura è rimasta della lontana giovinezza di Bokassa. Per certo si sa che il suo nome compare nei registri di arruolamento delle truppe coloniali francesi – anno di leva 1938 – e che da allora ebbe inizio una lunga carriera militare. Di guarnigione a Brazzaville allo scoppio della seconda guerra mondiale, Bokassa entrò volontario con il grado di sergente nelle forze golliste della Francia libera. Era con quel corpo di spedizione che sbarcò a Sant-Raphael nel 1944 e che sul finire della guerra raggiunse, sulle Alpi austriache, il «nido dell’aquila» di Hitler. La vita militare doveva piacergli o sembrargli la sola possibile perché con la pace non lasciò l’esercito. La Francia andò a impantanarsi nella guerra di Indocina e Bokassa seguì la bandiera: i fantasmi galanti di quella campagna lo ossessionano ancora.

Qualche anno fa – quando un colpo di Stato aveva già fatto di lui il signore della Repubblica Centro Africana – Bokassa ebbe tempo di meditare sulle donne che aveva amato a Saigon: e poiché sapeva di averne avuto una figlia di nome Martine, che ormai doveva avere qualcosa più di venti anni, decise di rintracciarla per averla con sé. Si mossero le ambasciate e i servizi segreti di diversi Paesi che avevano qualche interesse a compiacere Bokassa e la ricerca fu così fruttuosa, così ben condotta, che arrivò a Bangui una lista di diciannove Martine. Bokassa dovette risolversi a scegliere e le sue figlie si ridussero a due. Quella vera l’avevano ritrovata gli americani. L’altra era falsa – come confessò con candore – ma poiché i servizi segreti francesi l’avevano scelta con eccellenti criteri, Bokassa decise di tenersi anche quella. Incautamente, non pochi giornali aveva parlato del suo «gran cuore di padre».

«KURT WALDHEIM? È UN RUFFIANO IMPERIALISTA»

La storia della figlia comunque non è che una piccola bizzarria in una cronaca grottesca e tragica. Bokassa è al potere dalla notte di San Silvestro del 1965. Le sue uniformi di parata sostengono a stento il peso delle decorazioni. E’ capo dello Stato, maresciallo, comandante supremo delle forze armate. Ha licenziato, semplicemente a pedate, decine di ministri e ci sono stati governi nei quali si è riservato fino a dodici ministeri. In lui non c’è traccia di quell’umore ironico che sembra correre, a volte, nella follia di Idi Amin. E’ un uomo tirannico che intende il potere come un diritto di vita e di morte, come uno sfogo di sanguinari capricci. Fece uccidere a bastonate alcuni ladri perché c’erano troppi furti nella sua capitale. Condannò a morte con sentenza unica tutti gli uxoricidi che aveva in carcere perché la gente credesse più fermamente «nel valore del matrimonio». Si divertì a comandare qualche plotone di esecuzione e lasciò esposti sotto il sole di Bangui alcuni corpi trucidati, semplicemente perché «ci voleva un esempio».

Gli ambasciatori di Francia (e se è per questo, tutti gli ambasciatori) considerano una punizione e una pena la vita in questa gialla e desolata città dove tutto dipende dagli arbitrii di un uomo e dai suoi scoppi di collera. «Ruffiano imperialista», fu la risposta che il segretario delle Nazioni Unite, Kurt Waldheim, ricevette da lui per aver manifestato la sua inquietudine riguardo alle pubbliche e mortali bastonature.

L’ATTENTATO COME SOLA FORMA DI PROTESTA POLITICA

Intorno al palazzo imperiale si stende un Paese povero e soffocato. E’ un ritaglio di terra grande due volte l’Italia, chiuso nel cuore dell’Africa. I francesi ci piantarono la loro bandiera all’inizio del secolo e la colonia dell’Oubangui-Chari (come allora veniva chiamata) divenne subito la più povera e la più trascurata di tutta l’Africa equatoriale. L’indipendenza – nel 1960 – cambiò il nome dello Stato, i suoi padroni e nient’altro. Non cambierà nulla neppure l’impero. Il prodotto nazionale lordo pro capite è sulle 150 mila lire annue. L’agricoltura potrebbe essere florida, ma appena un decimo delle terre è coltivato. La produzione di diamanti diminuisce da anni e si riducono i raccolti del caffè e del cotone. Sole speranze dell’impero rimangono i giacimenti di uranio di Bakuma, non ancora sfruttati, e una linea ferrata da costruire per rompere l’isolamento del Paese e collegarlo con i porti del Camerun.

Quanto ai sudditi di sua maestà, sono due milioni e mezzo e conducono una misera vita. Le tribù più importanti sono di ceppi diversi e si ignorano. I cittadini della capitale non hanno più diritti dei pigmei che ancora si nascondono nelle foreste del Sud e la sola forma di protesta o di opposizione politica è l’attentato. L’ultimo nel mese di febbraio dell’anno scorso. Bokassa ne uscì illeso e – cosa anche peggiore – convinto di essere assistito dalla predilezione divina.

LA BREVE CONVERSIONE ALL’ISLAM PER COMPIACERE GHEDDAFI

Bokassa, con la moglie, nel giorno dell’incoronazione a imperatore, il 21 dicembre 1976

Non esistono, dunque, uno Stato né una Repubblica Centro Africana: c’è solo un padrone dispotico che manda avanti ogni cosa a suo piacimento e che dei vent’anni trascorsi nelle caserme francesi conserva due idee: una fiducia maniaca negli effetti della «disciplina» e un tenace disprezzo per i borghesi, che considera mezzi uomini inetti e paurosi. Bokassa amministra la repubblica come una sua proprietà personale, «mandando i soldi all’estero», come vuole la regola e come sostengono i suoi nemici.

I giornalisti francesi che nel 1975 seguirono a Bangui Giscard d’Estaing visitarono il quartier generale Jean Bedel Bokassa, l’università Jean Bedel Bokassa, il padiglione Jean Bedel Bokassa. Videro anche diversi monumenti del capo, in marmo o in bronzo, a grandezza naturale: tutte le riunioni pubbliche cominciavano con un inno composto in suo onore. Una situazione di questo genere dà un sapore particolare a tutte le notizie che arrivano da Bangui: i giornali africani di lingua francese le chiamano bokasseries. Fu una bokasserie, per esempio, la decisione dell’imperatore di emancipare le donne. Ne scelse due nell’udienza delle nove di mattina e le nominò ministri: prima di sera le aveva già cacciate. Un’altra impresa fu quella della conversione: nel mese di settembre, attratto dalle ricchezze della Libia, Bokassa si incontrò con Gheddafi e per compiacerlo nelle sue manie religiose, decise di abbracciare la fede dell’Islam e di darsi un nome musulmano: Salah Eddine Ahmed. Nemmeno due mesi dopo, quando si accorse che Gheddafi non è né uno sciocco né un prodigo, rinunciò all’Islam e riprese a firmare con il suo vecchio nome.

UNA MASCHERA ESASPERATA DI TANTI ALTRI REGIMI AFRICANI

Se fatti di questo genere erano in qualche modo «normali», la proclamazione dell’impero è un grave caso di megalomania. Freddamente (come bisogna fare con i malati di mente) la rivista Jeune Afrique ha esaminato il dossier di Bokassa I. Era già presidente a vita: perché ha voluto imporsi una corona imperiale? La risposta non viene dalla politica, ma da quelli della follia. Secondo Jeune Afrique, «il demone dell’impero» s’era impadronito da tempo dell’uomo forte di Bangui. Già nel febbraio dell’anno scorso, i suoi ministri lo avevano sorpreso – magro, rasato male, con gli occhi persi nel vuoto – mentre meditava sul proprio destino in una isolata dimora di campagna.

«Che cosa c’è Papà? Che cosa vi tormenta? E in che maniera possiamo aiutarvi?», «no, no», rispondeva Bokassa, «non potete aiutarmi, non potete far nulla per me». Già allora, dietro quei tormenti simulati, la decisione era presa: «Papà», era sospinto verso il destino imperiale «da una totale mancanza di senso del ridicolo» e dall’indifferenza che ha sempre mostrato per ciò che nel mondo si pensa di lui.

Cos’è del resto Bokassa? E’ solo una caricatura, la maschera esasperata di tanti altri regimi africani: «Non è il solo nella culla della personalità, nei titoli superlativi, nelle istituzioni vuote, messe là per impedire qualsiasi evoluzione». Le cose si complicano in lui per dati non politici, ma personali. Non ha pudori, non ha complessi. L’idea di infilarsi una corona sul capo non gli è venuta, secondo Jeune Afrique, dagli imperi precoloniali del Ghana o del Mali, ma dai suoi anni di onorato servizio con le truppe francesi. Si è battuto anche lui per quel vecchio tricolore. E’ stato anche lui un Piccolo Caporale: «Napoleone è il suo modello. Per capirlo basta guardare le divise che indossa da quando è imperatore».

E’ probabile che questa ipotesi non sia molto lontana dal vero. Bokassa I non è la sola vittima dell’ossessione napoleonica: ci sono stati altri casi in America Latina e nei Caraibi. Ad Haiti, nel secolo scorso, l’uomo che comandò la rivolta contro i coloni e le truppe francesi si proclamò imperatore. Era uno schiavo nero, si chiamava Cristophe. E per Haiti come per molti stati africani di oggi, la storia è soltanto una serie di sanguinose operette.