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«Con anglicismo e americanismo andavamo perdendo lo spirito creativo». Lucio Battisti parla di Anima latina (1974)

Redazione Spazio70

Alcuni stralci dalla storica intervista rilasciata a Renato Marengo per Ciao 2001

Pubblicato sul finire del 1974, Anima latina rappresenta un momento importante per la storia discografica di Lucio Battisti ma anche per l’intera scena musicale italiana, negli anni Settanta ricca di influenze e contaminazioni culturali. Realizzato dopo un intenso viaggio in America meridionale, il nono disco in studio del musicista di Poggio Bustone costituisce una sapiente commistione di rock progressive, cantautorato italiano, psichedelia e musica folk: un ambizioso progetto sperimentale del duo Battisti-Mogol ingiustamente bistrattato da molti critici musicali dell’epoca pur rientrando nella Top 10 degli album più venduti del 1975.

Delle undici tracce che compongono Anima latina (tutte rigorosamente senza ritornello, fatta eccezione per Due mondi) sono due i brani respinti dalla censura Rai: Il salame e Anonimo. Il primo per «l’evidente allusione sessuale», il secondo per l’utilizzo esplicito del termine masturbarsi. Una decisione che non riesce in alcun modo a far cambiare idea all’autore dei testi: «È la canzone dei ricordi della mia infanzia — afferma Mogol — se c’è anche quel ricordo [la masturbazione, ndr] perché ucciderlo? solo perché la canzone venga radiotrasmessa? mai!».

In occasione dell’uscita del disco, Battisti concede al giornalista Renato Marengo una lunga intervista per la rivista Ciao 2001. Riportiamo di seguito alcune delle dichiarazioni più interessanti.

«UN’OPERAZIONE CULTURALE»

«Questo mio ultimo LP, Anima latina, è per me un’operazione culturale, quasi un esperimento e tale dovrà restare, ho fatto alcune considerazioni, alcune correlazioni con le altre arti la cui situazione più evoluta è senza dubbio quella iconografica, quella delle forme più recenti di pittura , di arte concettuale ecc.; per capire quanto avanti sia questo tipo di arte basti pensare a Picasso, a quello che è significato la rottura, la provocazione dei primi esperimenti dell’artista, divenuti poi documenti, divenuti addirittura scuola, serviti da stimolo ed apertura a nuove cose. Anche nella musica più elementare è utile fare oggi queste operazioni: nella musica contemporanea l’hanno già fatto, nel mondo delle canzoni, quello più vicino alle masse, quello più immediato, per la gente più semplice, ancora non è stato fatto, siamo ancora legati alla strofa, alla rima, sia pure trattandosi di cantautori, di brani impegnati e ricchi di significato: son sempre cose che si subiscono. Questa sudditanza dell’ascoltatore deve essere modificata: non che tutti debbano comporre o far musica ma partecipare sì».

— Cos’è che ti ha portato a queste conclusioni, cos’è che ti ha spinto ad abbandonare una posizione comoda, comoda comunque perché la crisi della leggera, in pratica ti agevolava, essendo tu stato sempre avanti, diverso, legato a significati e fattori musicali anche se nell’ambito della musica leggera? Queste “aperture” hanno una motivazione tua intima, derivano da ragionamento o sono state influenzate da fattori esterni?

«In pratica, proprio perché mi sono sempre considerato “avanti” a tutto il resto, nella mia continua ricerca evolutiva era inevitabile che giungessi a conclusioni di rottura e al tempo stesso a premesse per un nuovo tipo di aperture, e il momento di passaggio si è verificato proprio in alcuni brani e situazioni accennate in Il nostro caro angelo, il mio precedente disco di un anno e mezzo fa. Sarebbe stato facile continuare dal podio della gradevolezza, imporre cose sempre nuove, ma sempre legate alla stessa struttura; facile ma inutile, per quel che mi propongo oggi di fare con i mezzi musicali a mia disposizione. Ciò che ho fatto in questo ultimo LP è la risultante di anni di ragionamento, di esperienze accumulate, tesaurizzate, ma accantonate; non per questo inutili, anzi è proprio sulla base delle esperienze passate che è maturato il futuro della mia musica. Esperienza e volontà di sempre maggiore comunicazione, chiarezza, espressività, da una parte, situazioni coinvolgenti all’esterno, come visioni di altri mondi, di altre civiltà, dall’altra.

La mia lunga permanenza in Brasile, in Sud America in genere, mi ha fatto prendere coscienza di un’altra dimensione della musica: musica come vita, come possibilità di stare insieme, di ballare insieme, di cantare insieme, di protestare insieme. La musica brasiliana è una delle più vive oggi tra le musiche popolari del mondo; non ha perso la sua funzione che è soprattutto quella di consentire al popolo di esprimersi, di comunicare, di stare insieme. Soprattutto consente a chi è “in mezzo alla musica” di parteciparvi. Ed è un grosso fatto sociale oltre che musicale.

Partecipare alla musica (e quindi vivere, ridere, soffrire, esprimersi, pensare), non subirla, è la mia concezione conclusiva, oggi, di fare o di ascoltare musica. La voce, le parole, come gli strumenti, fanno parte di un tutto: musica, cantante, ascoltatore, esecutore. La musica naturalmente deve essere piena di respiri, di ritmi stimolanti, deve svolgere la prima operazione di coinvolgimento; una volta adempiuta questa funzione, la voce, i testi, debbono uniformarsi ad essa discretamente, essere amalgamati con gli strumenti, lasciare la possibilità a chi ascolta di scoprire sia la voce sia i significati dei testi. È soprattutto in questa dimensione che ho concepito questo disco, la cui elaborazione è durata sei mesi».

«CON L’ANGLICISMO E L’AMERICANISMO ANDAVAMO PERDENDO LO SPIRITO CREATIVO»

— Sei stato per sei mesi in sala di registrazione? Come mai tanto tempo per fare delle cose “semplici” e comunicative?

Lucio Battisti: biografia e discografia del cantante«Innanzitutto debbo dirti che, pur avendo ben chiaro in testa ciò che volevo ottenere, non avevo la più pallida idea di come tradurlo in musica: ho dovuto provare e riprovare, sperimentare, e quindi i primi due mesi in pratica sono trascorsi preparando il materiale. Poi per quanto riguarda le cose semplici, devo dire che quanto più elementare è una linea musicale, un fatto ritmico, tanto più impegno occorre proprio per riprodurlo come tale. Una cosa è un concerto dal vivo, una cosa un disco che debba significare qualche cosa. Ho voluto sfatare un altro mito, oltre a quello della voce: il mito del Battisti che fa tutto in diretta, che registra in sala come se fosse in un concerto.

Era un mito che oggi non serve più alla funzione comunicativa; l’effetto della voce deve essere quello di completare le situazioni musicali, non di sopraffarle; certe volte il volume è basso, certe altre volte la voce appare come distorta o addirittura stonata; fa tutto parte di un discorso di rottura, che però è al tempo stesso creativo. Diciamo che lo scopo principale è proprio quello di demistificare alcune situazioni false ed anacronistiche, di fare musica per gli altri, permettendo ad ognuno di ascoltare secondo la propria sensibilità, predisposizione o volontà. Cosa che cantando come si è fatto sino ad oggi non è certo possibile fare. Musicalmente ci sono molte arie, respiri ed aperture neolatine.

Perché Anima latina? Perché lì, tra quella gente semplice, tra quei suoni genuini e al tempo stesso pieni di felicità ma anche di denuncia, di realtà, ho ritrovato il “mio” spirito latino. Con l’anglicismo e l’americanismo che ci hanno coinvolti in questi anni andavamo perdendo, proprio noi mediterranei più di tutti, lo spirito creativo, la vitalità che ci caratterizzano da sempre e che non sono morti, ma semplicemente addormentati dalla sudditanza all’America dei frigoriferi e dei consumi. L’America Latina mi ha scosso da certi torpori, ma già da qualche anno avevo dentro un senso di rivolta, sentivo che la strada giusta non è quella degli altri, che la cultura degli altri può violentarci, sopraffarci ma non potrà mai diventare nostra. Basti pensare che, per ammissione degli stessi inglesi, i nostri testi, le nostre concezioni sono intraducibili per loro: perché è il nostro temperamento ad essere intraducibile.

Con la musica brasiliana, argentina, sudamericana in genere ho sottolineato questi stati d’animo, ma in pratica ho recuperato il mio stesso spirito creativo mediterraneo, latino come e forse più di quello sudamericano. Questo disco, al di là della sua concezione melodica, dei suoi effetti sonori, è in pratica il punto di passaggio definitivo tra il mio ieri e il mio domani. È già un fatto musicale di cui sono soddisfatto, un fatto nuovo, ma è senza dubbio un punto di rottura. I sei mesi impiegati a registrarlo sono passati soprattutto negli ascolti, nei ripensamenti, non negli abbellimenti, anzi col presupposto (non col problema) di render quanto meno vanesio possibile il tutto. È per questo che ho voluto usare un Eminent al posto di una grande orchestra d’archi; altri, al posto mio, avendo raggiunto in pratica l’apice nella musica leggera, forse avrebbero convocato l’intera orchestra della Scala per superare in maniera magnificante tutto quello fatto in precedenza. È proprio per questo, per rifiutare i grandiosismi, le cose inutili e vanesie, che ho usato strumenti semplicissimi, echi da poche centinaia di migliaia di lire, musicisti bravi ma sconosciuti, niente “tromboni”».