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«Segreto militare». La natura delle attività di Giannettini, non può essere in alcun modo rivelata

Redazione Spazio70

La quinta parte di una serie di articoli di approfondimento sulla strage di piazza Fontana

Quando il processo per la strage di Piazza Fontana comincia a Roma il 22 febbraio del 1972, gli anarchici sono ancora in arresto. È soltanto l’inizio di una serie di interminabili udienze segnate da stasi giudiziarie e incidenti procedurali. Il 6 marzo il dibattimento si ferma per trasferirsi a Milano ma a ottobre si verifica un’altra interruzione. Dopo una riunione presso il Palazzo di Giustizia umbertino, i magistrati della prima sezione penale della Corte di Cassazione stabiliscono che il capoluogo lombardo non è in grado di garantire la serenità necessaria allo svolgimento del lavoro di giudici, testimoni ed avvocati. Di conseguenza, per motivi di ordine pubblico, il processo viene spostato di ben 1.160 chilometri. La città prescelta è Catanzaro, da due anni capoluogo della regione Calabria. Ma i meccanismi burocratici della giustizia italiana sono in continua fase di stagnazione e per far ripartire le udienze bisognerà aspettare la primavera del 1974. Gli imputati, da tre anni dietro le sbarre, non dovranno sopportare ancora a lungo la detenzione. Nell’inverno del 1972 viene varata una legge (la cosiddetta «legge Valpreda») che riduce i tempi di carcerazione preventiva anche per reati gravi come quello di strage. In data 29 dicembre, Pietro Valpreda e i suoi compagni lasciano la galera e vengono ammessi alla libertà provvisoria.

UN GIORNALISTA DI NOME GUIDO

Guido Giannettini

Nel frattempo, le indagini continuano a riservare sorprese. I magistrati che seguono la pista nera sono sempre più concentrati sugli ordinovisti veneti: mentre Freda respinge ogni accusa, Giovanni Ventura inizia a parlare. Il 17 marzo 1973, il libraio confessa il coinvolgimento suo e di Freda negli attentati dinamitardi avvenuti fino all’estate del 1969. Tali ordigni, secondo Ventura, sarebbero stati usati al fine di criminalizzare l’area politica dell’estrema sinistra e indurre un generale senso di insicurezza che con ogni probabilità avrebbe portato la popolazione a sentire la necessità di uno Stato forte e autoritario. Tuttavia, in merito alla strage di Piazza Fontana, Ventura nega ogni responsabilità.

Intanto, tra le pagine dell’agendina del neofascista di Castelfranco Veneto spunta un contatto interessante. È un giornalista di nome Guido. Come appureranno gli inquirenti, che inizialmente si concentrano su Guido Paglia, si tratta invece di Guido Giannettini, collaboratore del Secolo d’Italia, organo ufficiale del Movimento Sociale Italiano. La sera del 15 maggio del 1973, la residenza romana del cronista viene sottoposta a un’accurata perquisizione. All’interno dell’appartamento le forze dell’ordine rinvengono un ingente quantitativo di documenti. Ad attirare l’attenzione degli investigatori è una serie di carte dattiloscritte che ha per oggetto numerose informazioni sulle attività dei movimenti politici extraparlamentari. Ciò che lascia perplessi i magistrati, oltre all’accuratezza dei dettagli, è anche il taglio di quei documenti, che risulta molto simile ai rapporti informativi dei servizi segreti.

Non è la prima volta che gli inquirenti si imbattono in materiale simile. Ci sono dei precedenti. Nel dicembre del 1971, presso la Banca Popolare di Montebelluna, venne rinvenuta una cassetta di sicurezza intestata a Maria Greggio e Teresa Condotta, rispettivamente madre e zia di Giovanni Ventura. All’interno del contenitore, tra cartelle e documenti di varia natura, vi erano custoditi una cinquantina di fogli dattiloscritti contenenti una serie di informazioni in merito alle attività di diversi gruppi politici dell’area extraparlamentare. La somiglianza con le carte ritrovate nell’abitazione di Giannettini è più che evidente, inoltre la macchina da scrivere utilizzata per la compilazione risulta essere la stessa. Identici sono anche i timbri e la calligrafia delle scritture a penna inserite a mo’ di correzione tra le righe di alcune pagine. Il padrone di casa dovrebbe rispondere a una lunga serie di domande, ma risulta irreperibile e secondo fonti certe si troverebbe all’estero da alcuni mesi.

LE BORSE PROVENIENTI DA DUE DIFFERENTI FABBRICHE

Il sostituto procuratore Emilio Alessandrini

Il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio e il Sostituto Procuratore Emilio Alessandrini interrogano nuovamente Ventura. In precedenza il libraio veneto aveva già fatto riferimento alle attività di un giornalista vicino ai servizi segreti, omettendone volutamente il nome. Dinnanzi all’evidenza, Ventura si vede costretto ad ammettere di aver ricevuto quei rapporti informativi proprio da Guido Giannettini. Tarantino, classe 1930, studioso di tecniche militari e studi geopolitici, Giannettini avvicina al MSI fin dai primi anni Cinquanta, collaborando con diverse riviste vicine a quell’area politica della destra radicale. Secondo i magistrati, il fine ultimo di quei rapporti sarebbe stato quello di provocare allarme tra le file dei militanti di estrema sinistra per indurli a perpetrare atti violenti contro le istituzioni.

Un’altra rivelazione importante di Ventura su Giannettini riguarda le presunte attività segrete che il giornalista avrebbe svolto per conto del SIFAR e del SID oltre alla sua partecipazione a un convegno tenutosi a Roma nel maggio 1965, avente per oggetto la strategia della tensione. I magistrati intendono vederci chiaro e per appurare la veridicità di quanto affermato da Ventura si rivolgono direttamente ai diretti interessati, inviando al Servizio Informazioni Difesa alcune copie delle veline sequestrate. La risposta del SID è netta e non lascia adito a fraintendimenti: «segreto militare». La natura delle attività di Giannettini, non può essere in alcun modo rivelata.

E mentre si cerca di svelare lo scottante enigma di un possibile coinvolgimento dei servizi segreti italiani, gli inquirenti vogliono fare piena luce anche sugli elementi in loro possesso che ricondurrebbero alle responsabilità di Freda e Ventura. A seguito della perizia effettuata con i frammenti delle cinque borse utilizzate per gli attentati del 12 dicembre 1969, il famoso acquisto nel negozio padovano inizia a divenire un argomento d’accusa decisamente meno solido. In base all’esito di un esame portato avanti da un collegio peritale di specialisti si apprende che le borse impiegate per il trasporto e l’occultamento degli ordigni avrebbero origini diverse tra loro. A differenza di quanto emerso in un primo momento, soltanto due delle cinque valigette in similpelle sarebbero state prodotte dalla ditta Mosbach & Gruber, ossia quelle impiegate per gli ordigni alla Banca Commerciale di Milano e all’Altare della Patria a Roma. Le restanti tre proverrebbero invece da un’altra fabbrica. Un simile dato potrebbe ridimensionare notevolmente le accuse mosse in tale direzione contro Freda, anche alla luce della testimonianza della segretaria del procuratore legale padovano che afferma di aver visto borse simili nello studio del sospettato, ma nel gennaio del 1970, dunque in epoca successiva agli attentati. Appare invece diversa la questione dei timer, come del resto risultano improbabili le giustificazioni date dal Freda, che in un primo momento ha negato l’acquisto per poi sostenere di aver prelevato quel materiale a sostegno della causa palestinese, per conto di un certo capitano Hamid.