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A Catanzaro inizia il processo per piazza Fontana. Andreotti rivela il ruolo di Giannettini

Redazione Spazio70

La sesta parte di una serie di articoli di approfondimento sulla strage di piazza Fontana

A oltre quattro anni dalla strage, nel marzo del 1974, a Catanzaro sta per ricominciare il processo agli anarchici. L’aula adibita al dibattimento è stata preparata in un luogo piuttosto insolito: la palestra di un centro di rieducazione minorile. È lì che siederanno giudici, imputati e difensori, sulle linee bianche e gialle che delimitano le aree di gioco del campo di pallavolo. Il giorno prima dell’udienza, Pietro Valpreda si sfoga con la stampa ed esterna il proprio disappunto per un processo caratterizzato da costanti rinvii e clamorose ingiustizie, prima fra tutte la sua presenza in aula in qualità di imputato. Gli indizi sulla colpevolezza del ballerino anarchico, in effetti, poggiano sostanzialmente su quattro elementi. Analizzandoli attentamente, ci si renderà subito conto delle evidenti lacune che caratterizzano gli argomenti dell’accusa.

Il dato più consistente è senza dubbio rappresentato dalla testimonianza di Cornelio Rolandi, il tassista milanese che nel frattempo è deceduto. Tuttavia, restano alcuni interrogativi sugli aspetti meno limpidi di questa vicenda, a cominciare dalla discutibile procedura di mostrare a un testimone la fotografia di un sospettato poco prima del riconoscimento dal vivo. Di certo una prassi non regolare. Bisognerebbe chiedersi, inoltre, come sia possibile che a un terrorista che sta per compiere un attentato così sanguinoso possa venire in mente di prendere un taxi, rischiando di farsi riconoscere al solo fine di compiere un tratto di strada irrisorio, circa un centinaio di metri. È una versione a dir poco improbabile e decisamente ardua da sostenere. Il secondo punto sul quale poggia l’accusa è l’esperienza in materia di esplosivi attribuibile all’imputato. Il tenente Cicero avrebbe infatti confermato la bravura dell’anarchico nel maneggiare ordigni, sostenendo di esserne stato istruttore durante il servizio di leva e di aver formato Valpreda a un corso di specializzazione sull’utilizzo di materiale esplosivo. Tuttavia, la documentazione presente su un foglio matricolare del 1955 conferma che l’imputato non ha mai partecipato a quel corso.

18 MARZO 1974: IL DIBATTIMENTO HA FINALMENTE INIZIO

Il terzo argomento dell’accusa è la scarsa attendibilità dell’alibi costituito dalla zia dell’anarchico, la signora Rachele, la quale sostenne che nel pomeriggio del 12 dicembre del 1969 suo nipote Pietro sarebbe stato sempre in casa con lei, trattenuto a letto da una forte influenza. Versione confermata anche dalla madre e dalla sorella del ballerino. Secondo l’accusa, le donne avrebbero mentito per coprire un parente stretto, in realtà Valpreda, subito dopo la strage, si sarebbe recato a Roma con la propria automobile. Nella capitale l’attentatore sarebbe stato infatti visto e riconosciuto da alcune persone nei pressi del teatro di varietà Ambra Jovinelli. Tuttavia, in base a una perizia automobilistica, la vecchia Fiat 500 di Valpreda non avrebbe potuto compiere, nei tempi indicati dall’accusa, il tragitto Milano-Roma-Milano. Il quarto elemento accusatorio consisterebbe invece nelle rivelazioni di un poliziotto infiltrato nel circolo 22 marzo, l’agente Ippolito, uno dei personaggi più attesi tra i banchi di un processo che tarda a entrare nel vivo. Anche sul ruolo del «compagno Andrea», tuttavia, sembrano esserci alcune ombre. Ad esempio non è chiaro il motivo per il quale le accuse contro Valpreda non siano state fatte prima degli attentati, vista la confidenza dell’agente con i membri del circolo. Inoltre, bisognerebbe capire per quale ragione la magistratura sia stata messa al corrente dell’esistenza di questo infiltrato soltanto nel maggio del 1970.

Il 18 marzo del 1974 il dibattimento ha ufficialmente inizio ma viene nuovamente interrotto. La motivazione questa volta è legata al lavoro del giudice istruttore milanese. Accanto agli anarchici devono sedere al banco degli imputati anche i neofascisti veneti, ai quali vengono contestati gli stessi reati di Valpreda oltre a una serie di azioni terroristiche precedenti al 12 dicembre 1969. Il processo è rimandato di alcuni giorni. Il magistrato Gerardo D’Ambrosio ha depositato una sentenza con la quale rinvia a giudizio non soltanto Franco Freda e Giovanni Ventura ma anche Marco Pozzan, ex bidello padovano il cui nome era emerso nel memoriale di Ruggero Pan del 1972. Tra quelle pagine l’autore raccontava di essere stato assunto come assistente presso l’Istituto Configliachi di Padova nel marzo del 1969. Qui avrebbe conosciuto il Pozzan che prestava servizio in qualità di portinaio. Sarebbe stato proprio quell’usciere a svelare per primo al Pan i legami tra Freda e gli attentati dinamitardi della primavera del 1969. Secondo il giudice istruttore, i neofascisti devono adesso rispondere a una lunga una serie di accuse, dall’attentato esplosivo all’ufficio del rettore di Padova fino alla strage di Piazza Fontana, passando per le bombe ai treni, alla fiera campionaria, al Palazzo di giustizia di Torino e ad altri atti terroristici di natura esplosiva.

«GIANNETTINI? ERA UN INFORMATORE REGOLARMENTE ARRUOLATO DAL SID»

Nel frattempo, si cerca di fare chiarezza anche sullo scottante caso Giannettini. Il giornalista missino risulta ancora latitante, su di lui pende un mandato di cattura. L’accusa è gravissima: concorso in strage. Intervistato a Parigi dal giornalista de «l’Espresso» Mario Scialoja, il presunto agente segreto nega di lavorare per conto del SID e respinge le accuse mosse a suo carico, ammettendo tuttavia di essere l’autore di quei rapporti informativi rinvenuti nella banca di Montebelluno e di aver redatto tali documenti per poi consegnarli a Franco Freda. Giannettini, tuttavia, ritiene improbabile il coinvolgimento dei due fascisti veneti negli attentati che vengono loro contestati, aggiungendo di essersi dato alla fuga soltanto per evitare un processo politico ai suoi danni. Ma nel giugno del 1974, con grande stupore da parte dell’opinione pubblica, alcune delle dichiarazioni del latitante vengono smentite da una fonte più che autorevole: il Ministro della Difesa Giulio Andreotti. Nel corso di un’intervista concessa al settimanale «Il Mondo», l’onorevole democristiano afferma esplicitamente che Guido Giannettini era un regolare informatore del SID e spiega al giornalista Massimo Caprara le motivazioni del segreto mantenuto fino a quel momento sulla questione:

«Per decidere questo atteggiamento vi fu un’apposita riunione a Palazzo Chigi. Ma fu un’autentica deformazione, uno sbaglio grave. Bisognava dire la verità: cioè che Giannettini era un informatore regolarmente arruolato dal SID e puntuale procacciatore di notizie come quella relativa all’organizzazione della strage».