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«Volevano il morto». La battaglia di Valle Giulia vista da destra

Redazione Spazio70

La grande rivolta studentesca del '68 romano in un lungo editoriale pubblicato dal settimanale «Lo Specchio»

Volevano il morto, avevano bisogno di un altro Paolo Rossi da gettare tra le gambe della democrazia italiana, quella che, bene o male, si esprime ancora in una libera scelta di uomini liberi attraverso un dominio della maggioranza. Volevano il morto i comunisti, per poter impiantare un nuovo «processo» alla società dei grandi, dei borghesi, degli arrivati, alla società del «denaro», dei «padroni» come i più spregiudicati tra i rivoltosi l’hanno battezzata: e in quel processo avrebbero avuto ancora una volta al fianco la complicità pelosa di tutto il sinistrume nostrano. Volevano un cadavere, uno qualunque, aspettavano con ansia che un agente o un carabiniere travolto dalla teppa sanguinaria perdesse la testa e sparasse. E per poco non l’hanno avuto il morto, solo che si sarebbe trattato di un morto in divisa, qualcuno che stava lì davanti ad Architettura solo per fare il proprio dovere pensando magari che lui i soldi non li aveva potuti avere da suo padre per frequentare l’Università.

Ma questo morto così poco classista, così poco «immagine della reazione», sarebbe stato un morto scomodo, pesante da giustificare, difficile da dimenticare. Si sono visti agenti e carabinieri, completamente disarmati, bastonati a sangue, pestati, calpestati; si sono visti rivoltosi lanciarsi come belve in dieci, quindi, contro uno solo e picchiare, picchiare a morte; si sono visti uomini inermi lapidati bestialmente e linciati. Solo quanto l’immagine di quel morto «scomodo», di quel morto che avrebbe avuto il volto, agli occhi della gente, di uno abituato a fare silenziosamente il proprio dovere al servizio dello Stato è cominciata a diventare reale, quando i caporioni e gli organizzatori della rivolta hanno avvertito quel sentore di morte aleggiare su Valle Giulia tra gli urli delle sirene, il fumo delle auto incendiate, i gas lacrimogeni, allora, ma solo allora, hanno ordinato di fare marcia indietro. E la rivolta è finita. E la teppa si è dispersa.

L’UNIVERSITÀ? UNA PIAGA ANTICA E «CANCEROSA»

(Foto proveniente dal nostro archivio privato. Pregasi citare Spazio 70 in caso di utilizzo)

Avevano cominciato le agitazioni portando la bandiera di sacrosanti diritti offesi, di esigenze improcrastinabili, di necessità pedagogiche, organizzative, finanziarie che non potevano più essere ignorati. Poi tutto ciò non ha avuto più alcun senso. La rivolta, la violenza pura e semplice, l’aberrante sopraffazione dei diritti altrui, la tronfia sicurezza di agire comunque nella ragione, il disprezzo per ogni altra tesi e per tutte le altre fedi e convinzioni non potevano e non possono più essere tollerati perché offendono la civiltà e lo Stato. E lo Stato deve difendersi contro chiunque ne minacci l’esistenza, anche con la forza.

In Italia vi sono molti diritti violati o ignorati, ma nessun diritto è maggiore di quello dello Stato. Ristabilendo in pieno il suo buon diritto, lo Stato riacquisterà forza e prestigio necessari a tutti i cittadini. Se ciò avverrà ogni problema potrà essere risolto e quello dell’Università tra tutti gli altri. Se ciò non accadrà la strada delle avventurose iniziative si allargherà sempre più e il problema dei giovani, uno dei tanti dell’Italia di oggi, dovrà essere impostato e risolto con altri sistemi che non siano quelli tradizionalmente democratici.

Guardiamo ora alla realtà del problema. L’Università rappresenta una piaga antica e cancerosa e, sia detto ben chiaro una volta per tutte, le responsabilità di una simile situazione sono solo ed esclusivamente di ordine politico. E’ una classe dirigente politica, che per vent’anni è stata sorda e cieca a ogni pur ragionato richiamo da parte del mondo universitario, che si trova in prima fila sul banco degli imputati; è una classe dirigente politica che ha agito sempre sotto l’impulso della demagogia del momento, quando non addirittura programmata, dilapidando migliaia di miliardi per i progetti più assurdi, per alimentare la corruzione del sottogoverno, per attuare programmi di riforma (vedi le Regioni) non urgenti e forse inutili, alla quale oggi l’Università italiana chiede ragione di tanta criminale inettitudine.

«NON AVEVAMO ALTRO MEZZO CHE LA VIOLENZA»

Una legge per la riforma universitaria attendeva da anni di essere discussa e approvata; e sarebbe comunque arrivata troppo tardi perché già superata dai tempi, dallo sviluppo scientifico e nozionale, dall’inarrestabile dinamismo sociale. Invece si è data la preferenza ad altre scelte, sempre con pervicace ottusità, negligendo ciò che di vitale, pressante, angoscioso veniva crescendo e maturando nel mondo universitario italiano.

Un giovane ci ha detto: «E’ una fortuna per noi che la maggior parte degli studenti non frequenti l’università, altrimenti le aule scoppierebbero e dinanzi agli ingressi ci sarebbero file lunghe chilometri». E’ la verità: mancano aule, mancano attrezzature; gli organici dei professori sono deficitari; sono sorpassati, ottusi e a volte dannosi i sistemi pedagogici, per non parlare di ciò che avviene quando i giovani laureati, abbandonati a se stessi in un mondo in cui la più atroce delle concorrenze stritola i deboli, gli indecisi, i «non appoggiati», debbono cercarsi un posto, un impiego. Sono questi i motivi di fondo dai quali è partita la protesta dell’Università. Come si è potuto per tanto tempo ignorarli?

«Non avevamo altro mezzo che la violenza, per farci sentire, perché si accorgessero di noi», ha detto ancora quel giovane, uno studente di fisica pulito e onesto come pochi ne conosciamo, ma travolto da passioni che si sono ingigantite e che ormai dominano ogni moto del suo animo. La violenza, il ricorso al dolore, al sangue, perché la società li «veda» e li «senta». Ed è qui il motivo più grave delle mancanze, dell’assenteismo, del vuoto che la nostra società porta nei confronti dei giovani. Questa democrazia nata sulle rovine del fascismo e con funzione esclusivamente antifascista ha impiegato vent’anni a negare ed annullare ogni valore, ogni sentimento, ogni ideale. Per vent’anni, continuando a rotolarsi nella coperta dei valori della Resistenza, si è detto, ripetuto, ribadito che la Patria era una cosa ridicola, che superato era l’onore nazionale; si è permesso e a volte autorizzato il vilipendio alla divisa, alla bandiera; si sono sporcati i ricordi delle guerre perse o vinte del passato, si è concesso lo svuotamento del concetto di famiglia da ogni suo valore spirituale, si è negato tutto e reso lecito tutto; è stato attaccato il pudore, è stata violata l’infanzia; lo Stato è apparso come un goffo burattino al quale chiunque poteva, tirando i fili, far muovere braccia e gambe nel più assoluto disordine, mentre la scoperta di scandali a ripetizione, di corruzioni a tutti i livelli, di patteggiamenti con il Codice e la coscienza talmente generalizzati da diventare nuovo costume di vita, ne avvoltolavano l’antica, austera immagine in un mantello di melma.

«NON RAPPRESENTIAMO LA MAGGIORANZA, MA NOI ABBIAMO UNA COSCIENZA DI QUELLO CHE VOGLIAMO. LA MAGGIORANZA, NO»

(Foto proveniente dal nostro archivio privato. Pregasi citare Spazio 70 in caso di utilizzo)

Questa è l’offesa che è stata fatta alla gioventù italiana di oggi, attraverso vent’anni di inerzia «democratica». E’ nella famiglia, è nella società, è nello Stato che è crollata la democrazia italiana. E in cambio di tutto quanto alla gioventù è stato tolto, con tanta perfida negligenza, non è stato dato nulla.

I giovani di oggi sono stati svuotati. Eppure si rifiutano con tutte le loro forze di essere vuoti. La rivolta dell’Università è solo un aspetto di una tragedia più grande, i cui momenti si sviluppano ormai fuori di ogni controllo e di ogni ordine precostituito. Su tutto ciò, su impulsi legati a bisogni forsennati di avere un senso, un significato, un avvenire, un perché, è esplosa la rivolta. E la rivolta è contro tutti. Per i giovani, i grandi, il «mondo dei padroni», sono tutti complici tra di loro in un’amara beffa. Tutti responsabili per aver creato il «sistema»; un sistema fatto a immagine e somiglianza dei «padroni» nel quale i giovani non vogliono e non possono adattarsi. «Il vostro mondo non ci piace, perché non è come noi lo vogliano e siccome ci dobbiamo vivere, dobbiamo cambiarlo», dicono gli studenti che rifiutano di essere definiti politicamente. E per raggiungere questo scopo i giovani sono disposti a qualunque assurdo, a qualunque eccesso.

«Noi ci rendiamo conto di non rappresentare la maggioranza. La maggior parte degli studenti non vengono all’Università. Ma noi abbiamo una coscienza di quello che vogliamo, loro no. Perciò noi abbiamo il diritto di prendere decisioni anche per gli altri. Se necessario adoperando la violenza». Questo dicono. «Così è nato il fascismo», obiettiamo. «Noi non vogliamo le stesse cose dei fascisti». «Non si tratta di quello che si vuole, ma dei metodi per ottenerlo. La violenza è violenza e nulla può giustificarla. Tantomeno la “ragione” di pochi contro il “torto” dei più. E accettando il principio della minoranza più in gamba e perciò abilitata alla violenza che si creano le dittature». «Noi non vogliamo dittature, ma siamo pronti ad adoperare la violenza per imporre il nostro punto di vista». «Ma il punto di vista degli altri, della maggioranza, non ha valore?». «Ma loro non hanno un’opinione», rispondono. «E chi vi autorizza a sostenere questo?». «Altrimenti sarebbero con noi». «Quindi ha un’opinione solo chi è con voi. Gli altri hanno automaticamente torto. Anche se sono tanti di più».

IL RUOLO DEI PARTITI NEL RINNOVARE ANTICHI ODI TRA GLI STUDENTI

E’ facile constatare come ragionamenti di questo genere si prestino a esasperazioni aberranti. I giovani universitari pronti a battersi per sostenere il proprio diritto a scegliersi i modi e le forme dell’avvenire, non sono disposti a garantire agli altri i medesimi diritti e le stesse libertà. E’ stato da un concetto così deformato e deviato di «diritto» e «libertà» che è nata, ben al di là della protesta universitaria, la rivolta di Valle Giulia. Una rivolta in cui è stato messo in discussione e attaccato tutto ciò che oggi ancora lo Stato rappresenta; una giornata in cui, con una ondata di furore, si è attaccata la vita stessa […] E allora quei ragazzi hanno urlato, bestemmiato, picchiato. Si sono lanciati contro agenti e carabinieri che rappresentavano la vera «realtà», urlando i loro logori slogans che non significavano niente messi nelle loro bocche dagli attivisti di partito, ben più consapevoli, attenti e freddi di ognuno di loro, perché le elezioni sono alle porte e tutto fa brodo, tutto va a finire nel calderone di quella scadenza. E così facendo sono usciti dalla legge, gli universitari di Valle Giulia, costretti ad affrontare il «mondo dei grandi», dei responsabili che hanno dovuto dire addio ai sogni e che si conquistano l’esistenza giorno dopo giorno, disperatamente.

Erano quegli agenti e quei carabinieri che stringevano le file, perché a nessuno può essere concesso di aggredire e colpire lo Stato, erano quegli uomini i difensori del «mondo dei grandi» e rispondevano alla violenza con la violenza. Perché la violenza ha una sua ferrea logica; è una strada dalla quale, una volta imboccatala, non si riesce a tornare indietro.

Nella mattinata di passione di Valle Giulia si sono fusi assieme tutti gli schieramenti e tutte le tendenze. Nella rivolta si sono ritrovati, a riprova di motivi passionali più profondi e lontani, democristiani, comunisti, «cinesi», di tutte le colorazioni, da quelli di «Primula» a quelli più spiccatamente «maoisti», dai liberali ai monarchici, ai missini ai socialisti. Erano tutti insieme a darle e a prenderle. Nei giorni successivi i partiti politici resisi conto della gravità e della novità del fenomeno, sono corsi ai ripari e le divisioni del mondo studentesco sono state ricreate ad arte rinnovando antichi odi e mai sopiti rancori. E’ cominciato anche il palleggio delle responsabilità. Spaventati inoltre dalle negative reazioni dell’opinione pubblica, i partiti hanno anche preso a scambiarsi accuse roventi.

IL MONDO DEI GIOVANI IN ATTESA

(Foto proveniente dal nostro archivio privato. Pregasi citare Spazio 70 in caso di utilizzo)

Sull’«Avanti» di domenica 3 marzo, i socialisti indicavano nei gruppi fascisti e pacciardiani gli «agenti provocatori che agiscono con una canagliesca parola d’ordine: “creare il morto”». Più avanti l’articolista continuava: «Nel corso degli scontri di ieri l’altro, sotto la facoltà di Architettura, gruppi di provocatori sono riusciti a impossessarsi di ben sei pistole tolte agli agenti. Due di loro hanno tentato persino di impadronirsi di due fucili mitragliatori. Costoro hanno escogitato, secondo fonti assolutamente degne di fede, un piano che, se attuato, porterebbe a conseguenze incalcolabili: riuscire a “ottenere il morto” tra le forze della polizia per poi metterlo “in braccio la movimento studentesco”».

Quindi secondo l’estensore socialista dell’articolo, a fare la rivolta di Valle Giulia, a disarmare gli agenti, a sparare persino colpi per aria, a colpire con bastoni e sbarre di ferro sono stati solo «gruppi di provocatori» neo-fascisti. Gli altri, i circa tremila che si trovavano a Valle Giulia, stavano a guardare! La verità è che tutti, indistintamente, hanno partecipato alla battaglia, perché tale è stata, vittime tutti di un raptus collettivo che probabilmente non era nei calcoli degli agitatori di professione inseriti dai vari partiti nelle associazioni studentesche. Oggi che quei giovani fanno effettivamente paura, oggi, che ancor più paura fa la reazione dell’opinione pubblica, si tenta di discriminare, accollando a questo o a quello schieramento politico giovanile la responsabilità della rivolta. Perché si è capito che quella responsabilità è nata ed è cresciuta in altre sedi e che investe un discorso più ampio ed umano, quello da noi abbozzato, e che per forza di cose si è sviluppato al di là del momento e della pur drammatica contingenza.

E’ un discorso che investe scelte durature e attente per l’avvenire, che non può essere rimandato e stralciato. Il mondo dei giovani, e non solo quello universitario, è in attesa. Sta alla nostra civiltà, al nostro sistema democratico, qualora si abbia ancora in esso sufficiente fiducia, incanalare e indirizzare positivamente le forze che dai giovani si esprimono. Forse oggi o mai più. Poi li perderemo. E i giovani perderanno noi e se stessi.