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Psicosi da colpo di Stato. Il «Bimestre nero» 1964

Redazione Spazio70

L'insistita interlocuzione tra Segni-De Lorenzo e i timori dei partiti all'indomani della fine del primo governo di centro sinistra

Roma, 2 giugno 1964, diciottesima festa della Repubblica italiana. Il presidente Segni viene visto piangere durante la sfilata delle truppe sulla via dei Fori Imperiali. Una emozione che si manifesta nel momento del passaggio della brigata meccanizzata dei carabinieri, un’unità da guerra di nuova istituzione, che quel giorno fa la sua prima comparsa in pubblico.

Qualcuno, bene informato, riconduce le lacrime presidenziali non soltanto al fatto che l‘Arma festeggi il 150esimo anniversario della fondazione, ma anche al fatto che i carabinieri, a metà anni Sessanta, abbiano fama di essere gli unici reparti veramente fidati delle nostre forze armate, immuni da infiltrazioni sovversive, capaci di difendere magari da soli la sicurezza dello Stato e le istituzioni democratiche della Repubblica.

Il quotidiano romano «Il Tempo» scrive – dopo la parata del 2 giugno 1964 – che «i carri armati pesanti non sono utilizzabili per la cattura dei ladri: possono servire, potrebbero servire, anche ad altri impieghi, ove ce ne fosse bisogno».

Il corrispondente romano del giornale francese «Le Figaro» aggiunge, sempre negli stessi giorni, che in Italia è forte l’assegnamento «soprattutto sull’arma dei carabinieri che è potente, sicura, popolare», precisando poi che Roma in quelle giornate di inizio estate pare pervasa da «una strana psicosi di colpo di Stato».

UN PRESIDENTE ANGOSCIATO

Antonio Segni

Quando vengono resi pubblici gli atti della «Commissione parlamentare di inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964» in tanti comprendono subito la difficoltà di asserire che un ipotetico «colpo di Stato» in quel bimestre nero fosse arrivato almeno alla fase preliminare. La vicenda umana e politica di un capo dello Stato che passa dalle estemporanee lacrime del 2 giugno alle consultazioni con i militari durante la lunga crisi di governo (22 giugno-22 luglio), con i duri interventi nei confronti dei politici, appare però interessante.

Le cronache del periodo descrivono un Antonio Segni angosciato per la sorte dell’Italia, sotto il profilo economico e dell’ordine pubblico.

Sulla prima questione, il presidente chiede spesso conto al comandante generale dei carabinieri, quel Giovanni De Lorenzo rispettato e temuto da buona parte del mondo politico italiano come il solo uomo forte del momento. De Lorenzo fa elaborare da un suo fedele collaboratore uno speciale piano per la difesa del Quirinale e lo mette nelle mani di Segni al fine di ottenere – come dice il 12 febbraio 1970 di fronte alla commissione di inchiesta – una «valutazione di gradimento perché si trattava di fare entrare un certo numero di uomini nei giardini del palazzo».

UN MICROFONO AL QUIRINALE DURANTE IL BIMESTRE NERO

La reazione di Segni è positiva e allo stesso tempo discreta perché non fa parola del piano nemmeno con il ministro dell’Interno del tempo, Paolo Emilio Taviani. La stampa del periodo, non certo quella più «estrema», arriva a ipotizzare la presenza nella scrivania presidenziale di una apparecchiatura volta a registrare i colloqui con le persone via via convocate. Uno degli uomini più misteriosi del cosiddetto «bimestre nero» – il colonnello Renzo Rocca, che termina tragicamente i suoi giorni nel giugno 1968 – avrebbe dichiarato che l’impianto si trovava nella stanza vicina a quella del presidente e che alla fine di ogni conversazione un brigadiere del «Sifar» procedeva a trascrivere.

Una vicenda inquietante che però viene risolutamente negata dal presidente del Consiglio Aldo Moro il 10 marzo 1968 in Senato: nessun microfono al Quirinale per ordine di Segni, dunque, ma nonostante questo qualcuno continua a sostenere che il presidente lo abbia ereditato dal suo predecessore senza comunque farne uso in occasione del bimestre nero.

Segni, comunque, consulta continuamente i militari. Il 14 luglio 1964 chiama il capo di Stato maggiore della Difesa, generale Aldo Rossi, per domandargli se ha qualche particolare sensazione in ordine allo stato dell’ordine pubblico: «C’è qualcosa in giro che lei sappia?» domanda il presidente a Rossi, ma il generale risponde di non avere nulla da segnalare precisando però che, in tema di ordine pubblico, informazioni più precise possono certamente essere date dal capo della polizia o dal comandante dei carabinieri.

«L’UDIENZA A DE LORENZO FECE UNA IMPRESSIONE GRAVISSIMA»

Ferruccio Parri

De Lorenzo, del resto, al Quirinale è di casa. Lo dichiara lui stesso alla commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi di giugno e luglio 1964: «Ci andavo spessissimo», dice senza remore. Il 15 luglio 1964 l’ormai normale consulto fra il capo dello Stato e il comandante dei carabinieri viene per la prima volta comunicato ufficialmente alla stampa e alla Rai: «Non so come o perché sia stato ritenuto utile fare ciò», dice ancora De Lorenzo ai commissari, ma uno scopo di sicuro viene raggiunto: ai politici arriva chiaro e forte il segnale di rigare diritti e a confermarlo c’è anche la deposizione del senatore a vita Ferruccio Parri: «L’annuncio della udienza data dal presidente della Repubblica al generale De Lorenzo fece una impressione gravissima: correvano voci di provvedimenti straordinari, presi in quella occasione».

A precisa domanda su quali siano stati gli argomenti toccati con Segni, De Lorenzo si mantiene vago nella propria deposizione in commissione: «Si parlò dell’ordine pubblico e delle preoccupazioni che potevano essere nate nel presidente». Secondo l’ammiraglio Henke, poi capo del Sifar, la risposta data a Segni da De Lorenzo sarebbe stata tranquillizzante: in tema di ordine pubblico «la situazione era controllata e controllabile senza bisogno di far nulla».

UN GOVERNO DI EMERGENZA

Giovanni De Lorenzo

L’angoscia presidenziale però non scema del tutto. Segni decide infatti di chiamare al telefono il generale Giuseppe Aloia, capo di Stato maggiore dell’esercito. Del colloquio intercorso tra i due, esiste la versione fornita dall’allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti: «Il generale Aloia mi telefonò per dirmi che aveva ricevuto una telefonata dal capo dello Stato il quale aveva domandato a lui se la situazione fosse tranquilla. Mi disse di aver risposto che all’interno delle forze armate non vi era alcun motivo di preoccupazione».

Quando però Andreotti domanda ad Aloia se a suo parere le inquietudini presidenziali siano alimentate da qualcuno, il generale gli risponde con un eloquente «se lo può immaginare» alludendo a De Lorenzo. Ricostruire in termini esatti il colloquio segreto Segni-De Lorenzo di quel 15 luglio, diciannovesimo giorno di una angosciosa crisi di governo, non è facile. Secondo il giornalista Lino Jannuzzi, i due avrebbero parlato di un governo di emergenza: una versione, questa, accettata da Ferruccio Parri che riferisce di aver avuto un colloquio proprio con De Lorenzo.

«IL PAESE NON TOLLERA LA VOSTRA PRESENZA»

Nenni e Moro

«Egli ascrisse a proprio merito di aver distolto il Presidente dal dare seguito a provvedimenti di emergenza», dice Parri, «e io ebbi l’impressione di dichiarazioni sincere. Dopo quello che è stato pubblicato, adesso l’ho un po’ meno, nel senso che mi pare probabile che De Lorenzo abbia abbandonato la partita quando vide svanire la possibilità di un governo di emergenza del quale egli sarebbe stato il ministro della Difesa e l’uomo forte».

Esiste su quei giorni anche una testimonianza di Nenni. Chiamato in Quirinale per consultazioni, il 3 luglio 1964, Nenni viene redarguito da Segni: «E’ necessario che lo comprendiate: il Paese non tollera la vostra presenza al Governo. Avete contro di voi tutte le forze economiche italiane. Non vi ostinate! L’unico contributo che potreste dare alla soluzione di questa crisi è il rifiuto di costituire una nuova edizione del centro sinistra!».

Come si vede i timori del presidente non nascevano tutti dalle considerazioni sull’ordine pubblico.