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Le idee operaiste negli anni Sessanta

Redazione Spazio70

Il piccolo vascello operaista punta a infastidire il grande corpaccione del Pci, propaggini sindacali comprese, indicando, con atteggiamenti tipicamente anti-dogmatici, ciò che un vero partito di classe dovrebbe fare

È il 1958 quando due intellettuali di formazione socialista, Renato Panzieri e Lucio Libertini, pubblicano su Mondo operaio, rivista legata al Psi, un intervento dal titolo paradigmatico: Sette tesi sulla questione del controllo operaio. Panzieri, in particolare, è un esponente di spicco della sinistra socialista che, coerentemente con il proprio dissenso verso la svolta del centrosinistra, sanzionata dal partito nel congresso del 1959, abbandona tutti gli incarichi direttivi trasferendosi a Torino per lavorare nella casa editrice Einaudi.

UNA STRATEGIA DI LOTTA A SINISTRA DEL PCI

Raniero Panzieri

Nelle Sette tesi viene criticato il tradizionale dogma su tempi e modi del passaggio al socialismo preceduto, sempre e in ogni caso, dalla fase di costruzione della democrazia borghese: una verità di fede alla quale i due intellettuali mostrano di non credere perché frutto della applicazione di un modello astratto a una realtà storica concreta.

Si tratta di un tema delicato che tocca anche la questione della qualità della nostra borghesia: in Italia, dice in sostanza Panzieri, la classe borghese si è rivelata incapace di essere classe nazionale, in grado di garantire – sia pur per un limitato periodo di tempo, al contrario di quanto avvenuto in Inghilterra e in Francia – lo sviluppo della società nazionale nel suo insieme.

La borghesia italiana nata e prosperata su basi corporative e parassitarie – si pensi alla formazione di singoli settori industriali vissuti sullo sfruttamento di un mercato di tipo quasi coloniale nel Mezzogiorno – ha beneficiato della protezione e del sostegno attivo dello Stato in alleanza con i resti del feudalesimo al Sud. Ai fini della edificazione del socialismo, Panzieri e Libertini ritengono quindi insufficiente un’azione esclusivamente politica priva di adeguata spinta dal basso proveniente dal mondo del lavoro e dalla classe operaia: anzi, il ricorso alla forza non viene escluso aprioristicamente dal novero delle possibilità perché quando in un determinato Paese le condizioni per il socialismo sono mature e le sue forze ottengono la maggioranza dei consensi, la resistenza della classe capitalistica e il suo ricorso alla violenza «possono condurre all’urto armato e alla necessità della violenza proletaria».

Lucio Libertini

Il duo Panzieri-Libertini, dunque, delinea, già alla fine dei Cinquanta, una strategia di lotta, sul piano politico, sindacale e sociale, alternativa a quella del maggior partito della sinistra, il Pci, intento a guadagnarsi sempre più i galloni di formazione politica inserita all’interno dell’arco costituzionale: i due (ex) socialisti appaiono però anche lontanissimi dal proprio partito di origine, quel Psi che si avvia lentamente alla costruzione del centrosinistra a guida democristiana.

Simili tesi espresse all’inizio del miracolo italiano possono a buon diritto definirsi eretiche perché rifiutano, alla radice, qualsiasi forma di collaborazionismo e accettazione del paternalismo di Stato o padronale. Le idee operaiste hanno una limitata diffusione presso le capitali del triangolo industriale e vengono diffuse dalla rivista Quaderni rossi, voluta dallo stesso Panzieri, che uscirà in cinque numeri monografici tra il 1961 e il 1965. La posizione degli autori dei Quaderni è tipicamente anarco-sindacalista: una visione dei rapporti tra capitale e lavoro che si pone alla sinistra dei due partiti storici della sinistra italiana – Pci e Psi – con un forte richiamo alla autonomia operaia rispetto alle consolidate strutture partitico-sindacali dominate dal più grande partito comunista dell’Occidente.

Il piccolo vascello di Panzieri punta a infastidire il grande corpaccione del Pci, propaggini sindacali comprese, indicando, con atteggiamenti tipicamente anti-dogmatici, ciò che un vero partito di classe dovrebbe fare: perché per i Quaderni rossi il Pci non solo ha abbandonato il sogno di fare la rivoluzione, ma è diventato, nei fatti, addirittura controrivoluzionario.

Il Partito comunista italiano, a parere di Panzieri, già nella prima metà degli anni Sessanta, non è più da tempo capace di portare all’abbattimento dello Stato borghese e alla affermazione di una vera società socialista: la sua strategia non è rivoluzionaria, ma progressista, riformista, di alleanza dei ceti, tendente a riassorbire gli obiettivi socialisti in obiettivi democratici, compatibili con le strutture borghesi esistenti. Panzieri ce l’ha anche con il suo vecchio partito, il Psi, che ha ormai optato per la scelta del centrosinistra a guida democristiana; a essere presa di mira dai redattori dei Quaderni rossi è soprattutto la cosiddetta programmazione, idea riformista, deteriore per un operaista, capace di imbrigliare, ghettizzare, il conflitto sociale e sindacale all’interno di ambiti graditi al capitale.

L’OPERAISMO DI TRONTI E NEGRI. LA NASCITA DI POTERE OPERAIO

Panzieri rinnova l’invito a far sì che la classe operaia rifiuti qualsiasi tipo di collaborazione con il capitale, al fine di rendere difficile la riorganizzazione delle strutture capitalistiche già in atto a metà anni Sessanta: una resistenza che passa dalla disattenzione degli orari di lavoro stabiliti nei contratti secondo processi che non sarebbero mai stati favoriti dal Pci, ormai avviato verso un cammino di legittimazione da parte delle istituzioni borghesi, né tanto meno dal Psi che aveva optato per una scelta collaborativa nei confronti del maggior partito degli interessi padronali cioè la Dc.

L’esperienza operaista è insomma il frutto della crisi del 1956: la denuncia dei crimini di Stalin al XX congresso del Pcus e le rivolte operaie in Polonia e Ungheria portano a una delegittimazione dell’ortodossia marxista-leninista favorendo la ripresa di correnti comuniste libertarie, egualitarie, anti-autoritarie. In poche parole, lo stalinismo non sembra più essere in grado di unificare il fronte della opposizione di classe: è una sorta di liberi tutti.

La proposta operaista dei primi anni Sessanta assume caratteri di inusitata modernità perché, quasi a intuire il futuro globalizzato che di fatto depotenzierà la portata delle grandi lotte sindacali e operaie all’interno dei singoli Stati nazionali, sostiene la necessità di agire in una sorta di «dimensione internazionale della lotta di classe».

Mario Tronti

Il 1962 è l’anno della rivolta di Piazza Statuto. Le diverse valutazioni di ordine politico e sociale sul comportamento dei manifestanti portano a una scissione all’interno della redazione dei Quaderni rossi che viene abbandonata dal gruppo fondatore di Classe operaia, la rivista di intervento nelle lotte diretta da Mario Tronti.

Classe operaia che va in stampa dal 1964 al 1967, e si avvale della collaborazione di Toni Negri e Alberto Asor Rosa, esprime un operaismo caratterizzato da una forte coerenza ideologica, quasi scientifico, pieno di aggressività verbale e contenutistica, con palesi riferimenti ad atteggiamenti sconfinanti nella illegalità assieme agli inviti volti alla creazione di un partito esplicitamente operaista collocato alla sinistra del Pci. Se il Partito comunista attribuendo alla classe operaia un ruolo di direzione e responsabilità nazionale favorisce effetti di subalternità e incorporazione, il gruppo di Tronti esalta invece la potenza di classe senza mediazioni rispetto alla rincorsa dei ceti medi: è la celebrazione del pensiero contro, negativo, capace di differenziare il mondo operaio fondando nuovi spazi di autonomia.

Per approfondire, consigliamo il nostro «Maledetti ’70»

Nei Quaderni piacentini, terza rivista operaista da ricordare, bisogna registrare una critica molto determinata contro le tradizionali strutture politico-sindacali della sinistra, specialmente comunista. I detrattori dei Quaderni sostengono che i redattori di questo periodico abbiano in realtà preso tutti gli abbagli propri della intellighenzia italiana di sinistra, primi fra tutti la acritica esaltazione della rivoluzione culturale cinese presa a esempio come contrapposizione frontale al revisionimo e al burocratismo propri del mondo sovietico e occidentale. I Quaderni sentono che nel biennio 1967-68 la rivoluzione è vicina. In realtà la forte critica operaista al dogma rappresentato dal Pci è il risultato di una ambiguità di fondo tipica del maggior partito comunista dell’Occidente: da un lato, il Pci guarda ancora a Mosca, percependone i finanziamenti, ma dall’altra il partito è certamente impegnato, fin dagli anni Sessanta, in un processo di consolidamento all’interno delle istituzioni e della società italiana.

Nella legislatura 1963-68, nelle commissioni parlamentari, il Pci vota un buon 70 per cento dei provvedimenti in esame: una tendenza, quella ad approvare le leggine di spesa che esprime una volontà da parte dei comunisti di legittimarsi all’interno del quadro politico-istituzionale italiano.

Dopo la breve esperienza della rivista Contropiano, negli anni Settanta gli operaisti tornano a scindersi in due diverse linee politico-teoriche: un operaismo di sinistra e di un operaismo di destra. Gli operaisti di sinistra, di cui Toni Negri è uno dei principali leader, cercano di dare una testa politica al ciclo di lotte dell’operaio massa fondando nel 1969 Potere operaio, un partito rivoluzionario che persegue una risoluzione della forte conflittualità politica e sociale attorno alla parola d’ordine del salario sociale. Gli operaisti di destra, rappresentati da Tronti, Cacciari e Asor Rosa, ripiegano invece sull’entrismo nel Pci e teorizzano lo spostamento del conflitto sul terreno statuale: l’ipotesi è insomma quella di una alleanza dei produttori e di una gestione della economia capitalistica sotto la guida politica operaia che utilizzi la macchina statale per sconfiggere le arretratezze della società italiana, promuovere la riforma dello Stato e rimettere in moto lo sviluppo.