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Il dopo Kennedy. Ritratto di Lyndon Johnson, l’uomo del Texas

Redazione Spazio70

Da un articolo di Livio Pesce per «Epoca» (1963)

Ho conosciuto Lyndon Johnson a Berlino, nei giorni in cui sorgeva il «muro della vergogna» e i tedeschi attendevano dall’America un gesto di fermezza e di solidarietà. Johnson, allora, indirizzò alla folla frasi sonanti me ben scandite: «Per la sopravvivenza di questa città, noi americani abbiamo impegnato le nostre vite, le nostre fortune e il nostro onore sacro. Il popolo americano non ha il genio della ritirata e noi non intendiamo ritirarci ora». I berlinesi applaudirono, confortati, ma rimasero poi stupefatti nel vedere Johnson che andava in giro per la città distribuendo penne a sfera col suo nome stampato sopra. E le lanciava anche al di là del muro. Lo stesso stile di Truman, che regalava matite con questa scritta: «Rubata alla scrivania del Presidente degli Stati Uniti».

Al pari di Truman, infatti, il nuovo Presidente è un uomo che viene dalla gavetta, è ricco di sensibilità e di esperienza, e in più conosce a menadito l’arte di rendersi popolare e simpatico. Alto un metro e ottantasette, attento a non superare i novanta chili di peso, egli porta vestiti da duecento dollari che hanno il solo difetto di essere fatti oltre Atlantico. Le sue cravatte studiatamente vistose, lunghe e strette come vuole la moda, svolazzano su immacolate camicie di seta ornate dall’immancabile sigla L.B.J. Al polso sinistro brilla uno dei suoi numerosi orologi col cinturino d’oro massiccio, dalle maniche della giacca spuntano sui polsini i gemelli preziosi, la cui forma riproduce quello dello Stato del Texas. Il sorriso spontaneo e comunicativo fa di lui l’esatto contrario del «brutto americano» che la letteratura e il cinema hanno reso di moda. Johnson è americano dalla testa ai piedi, ma dalla sua persona spira un’aria di pulizia, di lealtà e di vigore che ispira una immediata fiducia.

«OK, ORA RIPORTIAMO QUESTO AEREO A WASHINGTON»

Un’immagine tipicamente «texana» di Johnson, all’interno del suo allevamento di Johnson City [foto proveniente dal nostro archivio privato, si prega di citare Spazio 70 in caso di condivisione]

Venerdì 22 novembre 1963, pronunciando un giuramento di trentaquattro parole sulla Bibbia, nella cabina dell’aereo presidenziale fermo sulla pista di Dallas, Lyndon Baines Johnson è diventato il trentaseiesimo Presidente degli Stati Uniti, raggiungendo la meta più ambita, il traguardo supremo della carriera politica, proprio nel Texas, la sua terra natale. Ma la cerimonia era cupamente avvolta dalla tragedia consumata un’ora e mezza prima. Sul motto del Texas, Amicizia, si stendeva un’ombra di lutto e di orrore. A mezz’asta la bandiera a stelle e strisce della Confederazione, a mezz’asta il vessillo dello Stato del Texas con la «stella solitaria» di Fort Alamo, a mezz’asta le bandiere di tutto il mondo. Lyndon Johnson diventava presidente su un aereo a reazione carico di dolore e di angoscia: la salma di John Kennedy a pochi passi da lui, Jacqueline impietrita, con l’abito ancora insanguinato, testimone alla sua sinistra, a destra sua moglie e di fronte a lui ancora una donna: il giudice Sarah Hughes, il cui decreto di nomina, due anni fa, fu firmato da John Fitzgerald Kennedy, ora chiuso nella bara di bronzo.

Dopo aver abbracciato Jacqueline e sua moglie, Johnson ha detto: «Okay, ora riportiamo questo aereo a Washington». Ma poiché una dichiarazione bisognava pur farla, prese un foglio e scrisse il breve messaggio agli americani che finiva così: «Farò del mio meglio. Questo è tutto quello che posso dire. Chiedo il vostro aiuto e quello di Dio». Parole umili, parole semplici. Ma dove trovare la misura delle parole in un frangente simile? La presidenza degli Stati Uniti è caduta addosso a Johnson come la folgore che si abbatte su un tranquillo viandante sorpreso dal temporale per la strada.

La carica di vice presidente con l’amministrazione Kennedy era tornata di secondaria importanza, come ai tempi di Roosevelt. «Che fine ha fatto Johnson?», si diceva a Washington strizzando l’occhio. E i giornali rispolveravano periodicamente le vecchie battute sull’inconsistenza dei poteri del «vice»: «C’erano una volta due fratelli. Uno andò per mare, l’altro fu eletto vice presidente e di loro non si seppe mai più nulla». O citavano alcune definizioni della carica, dovute a uomini che l’aveva ricoperta. Per esempio, quella lapidaria di John Adams, primo «vice» della Casa Bianca: «E’ l’ufficio più insignificante che l’inventiva dell’uomo abbia mai concepito». O quella mordace di Truman che giudicava la vicepresidenza «utile come la quinta mammella di una mucca».

«IO PRESIDENTE? PROVENGO DALLA PARTE SBAGLIATA DEL PAESE»

22 novembre 1963: Lyndon Johnson presta giuramento nell’ufficio dell’aereo presidenziale nelle mani del giudice Sarah Hughes. Accanto a lui Jacqueline, vedova di John Kennedy, la moglie di Johnson e vari membri dell’entourage presidenziale

Oggi sulle labbra di tutti c’è una domanda e Lyndon Johnson la conosce benissimo: «Questo texano sarà all’altezza del compito che il destino gli assegna?». Egli sa anche, perché i giornali lo hanno scritto più volte, di non essere considerato uno statista, né un boss, un capo dotato dello slancio, dell’inventiva, della carica ideale che rese celebre in pochi anni il suo predecessore. Negli Stati Uniti egli ha piuttosto la fama di politician molto abile, cioè di «operatore politico», di esperto parlamentare che conosce a fondo l’arte di dirigere i dibattiti congressuali, ma che non ha mai impostato una linea ideologica, una dottrina originale tipo il New Deal di Roosevelt o «la nuova frontiera» di Kennedy.

Nel 1953, quando era capo del gruppo parlamentare democratico al Senato, egli rispose a un collega che gli prospettava la candidatura alla Casa Bianca: «Non sono abbastanza in gamba per diventare Presidente. Provengo dalla parte sbagliata del Paese. Mi piace il posto che occupo in Senato. E’ il miglior lavoro che abbia mai fatto e voglio restare qui». La «parte sbagliata del Paese» è il Texas, lo Stato più grande della Confederazione americana, la regione più ricca del mondo, la patria del petrolieri miliardari, dei magnati conservatori: il Texas orgoglioso dove nel ventesimo secolo emerge il geniale pianista Van Cliburn e si annida l’infernale cecchino che fulmina John Kennedy. Il Texas sudista che oltraggia e vilipende Adlai Stevenson, ma acclama pochi giorni dopo il «figlio favorito» Lyndon Johnson, democratico come Stevenson, antirazzista come Kennedy, ma simpatico e amato per il solo fatto di essere un texano autentico. Nessun uomo politico del Sud, la «parte sbagliata», è mai diventato Presidente degli Stati Uniti dopo la guerra di Secessione. E Lyndon Johnson dovrà ritrovare l’antica energia, il dinamismo che lo animava prima di rassegnarsi alla vicepresidenza, per annullare l’handicap impostogli dal suo luogo di nascita.

Anche la sua origine familiare – sebbene in casa sua le tradizioni politiche fossero abbastanza vecchie – non gli ha dato i formidabili vantaggi di cui poté predisporre Kennedy. Suo nonno, Sam Ealy Johnson, allevatore di bestiame e flagello degli indiani, aveva fondato un borgo sulle rive del fiume Pedernales, battezzandolo orgogliosamente col proprio cognome. Sam Ealy era membro del parlamento locale del Texas, e così pure suo figlio, san Ealy junior, che gestiva un ranch, dispensava grandi manate al prossimo e commerciava abilmente in terreni. Quando il 27 agosto 1908 Sam Ealy junior divenne padre di Lyndon, il nonno corse ad annunciare ai vicini: «Ragazzi, è nato un senatore degli Stati Uniti».

IL RIMPROVERO MATERNO CHE GLI RISVEGLIÒ LA COSCIENZA

Un cinquantacinquenne Johnson al lavoro nella sua casa di Washington [foto proveniente dal nostro archivio privato, si prega di citare Spazio 70 in caso di condivisione]

Nei primi anni di scuola Lyndon Johnson prometteva bene. Capiva tutto alla svelta e finiva sempre i compiti prima degli altri, tanto che gli insegnanti dovevano poi tenerlo occupato facendogli pulire la lavagna o mandandolo fuori a prendere legna e acqua. Ma a quindici anni, finiti gli studi secondari con ottimi voti, egli sembrò perdere ogni interesse per l’istruzione. Se ne andò in California con altri cinque texani della sua età, piuttosto allegri. Si guadagnò da vivere facendo lo spaccalegna, il garzone, l’addetto agli ascensori. Poi si stancò di questa prima avventura e fece ritorno a casa con l’autostop, mettendosi a fare il conducente di trattori: sei giorni di lavoro e baldoria al sabato. Sua madre ne fu amareggiata: non era questo che speravano lei, il padre, il nonno. Una domenica mattina andò a svegliarlo alle undici, sedette sul suo letto e guardandogli la faccia imbambolata per la bisboccia della notte, gli disse: «Pensare che il mio primogenito si accontenti di una vita come questa, mah…». Lyndon, pieno di vergogna, voltò la faccia contro il muro.

Il rimprovero materno gli aveva svegliato la coscienza. Si fece prestare 75 dollari e ricorse un’altra volta all’autostop, ma per andare a iscriversi all’istituto di magistero di San Marcos. Poiché la famiglia non poteva mantenerlo agli studi, Lyndon si arrangiò facendo il portiere presso l’istituto, il piazzista di maglieria e il segretario del preside. Rimase per un certo periodo al verde, e dovette lasciare il collegio improvvisandosi insegnante in una scuola del Texas meridionale, ma poi tornò a San Marcos per completare gli studi e a 22 anni ottenne il diploma in scienze. A differenza degli altri studenti, che si dedicavano con entusiasmo allo sport, il giovane Lyndon si appassionò ai dibattiti e già all’istituto si fece notare come capo di una fazione politica chiamata delle «stelle bianche» (perché gli atleti si chiamavano «stelle nere») che egli stesso aveva fondato. E così, appena diplomato, ottenne l’incarico di insegnare come si parla e si discute in pubblico agli allievi della scuola superiore di Houston.

Cominciava a delinearsi la sua carriera politica. Nel 1932, Johnson divenne segretario e agente elettorale di Richard Kleberg, un rancher milionario che aspirava ad entrare nella Camera dei Rappresentanti. Vi riuscì, infatti, e si portò Lyndon a Washington, dove il giovanotto conobbe Claudia Alta Taylor, figlia di un altro rancher ben fornito di terre e quattrini: una ragazza graziosa, fragile, ma piena di vitalità. Appena nata Claudia era così minuta che la nurse nera aveva esclamato: «Signore Iddio, ma questo è un passerotto!». E il nomignolo di «passerotto» (Lady bird) le rimase. Così la chiamano ancora oggi a Washington e in tutta l’America. A Lyndon Baines Johnson piaceva moltissimo l’appellativo anche perché si identificava con le sue iniziali. Il giorno stesso in cui si conobbero egli la invitò a colazione per l’indomani e nei tre giorni successivi le fece una corte serrata che continuò poi con un bombardamento di lettere e telefonate lasciando Lady bird senza respiro. Dieci settimane dopo erano sposati e fu uno dei matrimoni meglio riusciti d’America, allietato da due figlie, i cui nomi cominciavano ovviamente per L e per B: Lynda Bird, ora diciannovenne, e Lucy Baines, che ha quasi sedici anni.

VOLONTARIO IN MARINA DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Un giovane Johnson con il presidente Roosevelt

A Washington il giovane Lyndon ormai lanciato nella politica trovò un mentore e un protettore nel democratico Sam Rayburn, destinato a diventare «Mister Sam», autorevole presidente della Camera dei Rappresentanti nel dopoguerra. Rayburn lo fece nominare da Roosevelt, nel 1935, direttore per il Texas dell’ente nazionale per la gioventù. Johnson accolse bene l’incarico, organizzando l’attività politica e ricreativa di ventimila giovani desiderosi di avere campi sportivi e parchi lungo le nuove autostrade. Due anni dopo morì il deputato James Buchanan, che rappresentava a Washington i concittadini di Lyndon Johnson, ed egli decise di porre la sua candidatura per succedergli. Fu la sua prima campagna elettorale, finanziata con tremila dollari di risparmi e con altri diecimila procurati da Lady bird.

Gli avversari di Lyndon erano nove, tutti più famosi di lui, e perciò egli doveva innanzitutto farsi conoscere. Vi riuscì in pieno, sostenendo a spada tratta la politica di riforme intrapresa col New Deal da Roosevelt. I nove avversari, tutti conservatori, concentrarono allora i loro attacchi sul giovane competitore e così gli fecero una pubblicità strepitosa. Lyndon Johnson fu eletto e il Presidente Roosevelt colpito dal vigore con cui quel «novellino» si era battuto per le sue idee, volle conoscerlo personalmente. Cominciò così una nuova e importantissima amicizia, cementata da colazioni domenicali, alla Casa Bianca e dalla fedeltà di Johnson nel servire la causa del partito democratico.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, egli fu il primo membro del Congresso ad arruolarsi volontario in marina. Combatté nel Pacifico meritandosi la «stella d’argento» per il coraggio dimostrato in una missione nella Nuova Guinea, ma venne smobilitato col grado di tenente dopo un anno perché Roosevelt aveva ordinato ai parlamentari sotto le armi di riprendere l’attività politica. Tornando a Washington, Johnson ingaggiò una nuova battaglia per strappare il seggio elettorale a Lee O’Daniel, un altro texano soprannominato «Passa i biscotti, papà», che la sapeva lunga sul modo di farsi eleggere. Al primo scontro, nel 1944, O’Daniel batté Johnson per 1311 voti. Al secondo, nel 1948, rinunciò invece alla candidatura, cedendo il passo all’ex governatore Coke Stevenson, che si diceva sicuro di distruggere Johnson. Per di più Johnson era anche convalescente. Ma lottò con energia furibonda, spostandosi in elicottero di continuo, tenendo anche 15 comizi al giorno in località diverse, facendosi precedere da squadre motorizzate di propagandisti, secondo una tecnica che sarebbe stata poi imitata da molti altri compreso Kennedy. Vinse lui, con una maggioranza di appena 87 voti, che diede luogo ad aspre polemiche, ma la sua carriera politica era ormai avviata su una strada sicura.

LA PROFEZIA DI EISENHOWER

Il presidente Dwight D. Eisenhower

Sua moglie, frattanto, aveva comprato zitta zitta una stazione radio ad Austin, che poi potenziò impiantando una rete televisiva. Nel giro di pochi anni, l’azienda che era l’unica della zona divenne assai fiorente. Di pari passo crebbe il prestigio di Johnson al Senato, specie per le battaglie da lui condotte contro gli sprechi di denaro pubblico nelle spese militari. Egli rivelava di anno in anno una geniale attitudine per il negoziato parlamentare, per la capacità di persuasione individuale e collettiva e per la sagacia nell’organizzazione dei dibattiti. L’influente senatore Richard Russel, democratico della Georgia, diceva di lui: «Johnson non è il miglior cervello del partito, non è il miglior oratore, non è il miglior parlamentare, ma è la miglior combinazione di tutte queste qualità».

Il giudizio di Russell ebbe il suo peso: nel 1953, a soli 44 anni, Johnson divenne leader del gruppo senatoriale democratico, allora in minoranza ma destinato a diventare maggioranza due anni dopo. Fra il 1953 e il 1958 egli seppe tenere unito il partito democratico, scosso e demoralizzato dalla duplice sconfitta di Stevenson alle elezioni presidenziali. Manovrò così abilmente fra amici e avversi che Eisenhower gli pronosticò in tono ammirato: «Un giorno voi occuperete la mia poltrona». «No, signor Presidente», replicò Johnson, «su quella non mi siederò mai: io non cambierei poltrona con voi per qualsiasi cosa al mondo». La profezia di Eisenhower si è avverata oggi, ma non certo perché Johnson desiderasse scambiare la sua poltrona con quella di Kennedy. Leale come sempre verso il leader del suo partito e dell’intera nazione, egli ha assolto i limitati compiti della vicepresidenza con discrezione encomiabile, sopportando le frecciate della stampa e preoccupandosi di essere sempre al corrente delle decisioni del Consiglio per la sicurezza nazionale e di quello per l’aeronautica e lo spazio che sono i due organismi fondamentali della strategia americana.

Stare al suo posto, in un ruolo secondario, deve essergli costato fatica, perché egli è un uomo attivissimo, esuberante, che ama parlar molto come tutti i politici di razza, e stare in compagnia, manifestando vivacemente le sue opinioni. I senatori democratici lo ricordano perentorio e duro quando si trattava di prendere decisioni difficili: per esempio, nella legislazione sui diritti civili dei neri, da lui pilotata sapientemente fra gli scogli procedurali. Se qualcuno faceva un discorso troppo lungo quando ormai l’esito della votazione era scontato, Johnson interveniva brusco: «Perché sprechi tanto tempo? Lo sai già come va a finire. Dunque siedi e votiamo». Ma se le cose non andavano come egli aveva previsto, allora veniva l’ordine inverso: «Tenersi tutti pronti a prendere la parola finché sarà finita. E avvertite le vostre mogli: dovranno fare a meno di voi per un pezzo».

UN POLITICO CAPACE DI PARLAR CHIARO

La first lady Claudia Alta Taylor, alias «Lady bird»

Nella vita privata e pubblica, secondo il giudizio di sua moglie, Johnson si comporta «come se non esistesse domani». Accanito collezionista di aggeggi meccanici e di chincaglieria preziosa, egli si desta ogni giorno alle sette, al ronzio di un orologio-sveglia da polso che è uno dei pezzi preferiti della sua raccolta. Fa colazione a letto (succo di pomodoro, frutta del Texas, salsicce di selvaggina texana, mezza tazza di caffè), leggendo i giornali e gli atti del Congresso. Alle sette e mezza è nel bagno, dove si sbarba con un rasoio elettrico, magari gridando alla moglie che vuole «contare le sue benedizioni», cioè parlare con lei dei problemi della giornata. Alle otto è in macchina, diretto all’ufficio e intento ancora a leggere i giornali, senza dimenticare di dar consigli all’autista sul modo migliore di guidare. Sul suo tavolo di lavoro gli piace tenere oggetti d’oro: una scatoletta per le pillole, un portacenere speciale o roba del genere. E lo divertono immensamente le batterie di telefoni, i dittafoni, i registratori, così come sembra beatamente rilassarsi quando ha intorno a sé tre segretarie, alle quali detta contemporaneamente tre diverse lettere.

Quando è impegnato, Lyndon Johnson si sente un ciclone del Texas, una forza scatenata della natura. «Chiamatemi il senatore Stennis!», ordinò una volta alla segretaria, appena entrato in ufficio. Passarono alcuni minuti, il senatore non si faceva vivo e Johnson sollecitò: «E allora, dov’è questo Stennis?». Gli fu risposto che stava viaggiando in aereo verso Sud. E allora Johnson investì l’impiegata: «Lei vuole che le aumenti lo stipendio o che le chieda le dimissioni? Trovatemi Stennis in dieci minuti!». Tre minuti dopo, Stennis parlava dall’aeroporto di Atlanta. Lo avevano «catturato» tra un aereo e un altro.

Johnson teme sempre di non essere capito, di non aver parlato chiaro. Nel suo ufficio di vice presidente teneva incorniciato questo motto di Edmund Burke, il liberale inglese che nel Settecento teorizzò la rivoluzione pacifica: «Coloro che vogliono realizzare grandi progetti pubblici debbono essere impenetrabili alle più mortificanti delusioni, ai più snervanti ritardi, ai più atroci insulti e peggio di tutto ai presuntuosi giudizi degli ignoranti sui loro disegni». Assillato letteralmente dall’idea del dovere, egli rispondeva a tutti i suoi elettori, quando era leader del gruppo democratico. In un solo giorno la sua segreteria arrivava a spedire seicento lettere dettate da li. E una sera che ne rimasero quarantacinque inevase, Johnson tuonò: «Oggi ci sono quarantacinque cittadini americani che non hanno ottenuto il servizio al quale hanno diritto».

«UN PROBLEMA SANITARIO AMBULANTE»

«E’ il più complicato degli uomini», spiega con dolcezza Lady bird, sua moglie, «e talvolta è davvero un ragazzo triste». Ma Johnson riacquista l’allegria ogni volta che può rifugiarsi nel suo ranch presso Johnson city, dove la bandiera stellata sventola su una piscina che la forma del Texas e dove nei ricevimenti si servono hamburgers sagomati anch’essi come il Texas, dove c’è un telefono persino nel giardino, sistemato nel tronco di un albero e dappertutto campeggia la fatidica sigla L.B.J., emblema della famiglia. Lyndon Johnson poi tiene molto all’eleganza dei suoi abiti. Si dice di lui che preferirebbe morire piuttosto di farsi sorprendere con addosso un vestito che costi meno di duecento dollari. Nel 1955, quando ebbe un serio attacco cardiaco, sentì intorno al letto qualcuno che parlava di annullare l’ordinazione di due vestiti, uno blu e l’altro marrone, a un sarto di Sant’Antonio. Johnson al quale i medici avevano dato cinquanta probabilità su cento di salvezza, riuscì a borbottare: «Ditegli di andare avanti col vestito blu: potremo usarlo qualsiasi cosa accada».

Il fatto sbalorditivo (e oggi preoccupante) di questo texano così dinamico, appassionato e coraggioso, è che la sua salute non è affatto buona. La stampa americana lo ha definito più volte «un problema sanitario ambulante» ed egli stesso ha elencato in varie occasioni le numerose malattie che il suo fisico imponente è riuscito a superare: una bronchite cronica, contratta nel Pacifico durante la guerra, l’attacco cardiaco del 1955 e una operazione per calcoli renali fonte di ripetuti disturbi. Dall’insidia del cuore egli assicura di essere completamente al riparo grazie a una guarigione «completa». E nel portafoglio tiene la copia fotostatica dell’elettrocardiogramma, in una busta di plastica che porge bruscamente ai dubbiosi.

I suoi discorsi sono quasi sempre brevi ed essenziali, perché «ciò che non si dice non ha bisogno di essere spiegato». Fino a ieri egli aveva la mania di citare detti paterni, nella convinzione che fossero memorabili. Chissà se adesso potrà ancora farlo. Uno dei preferiti, comunque, dovrà abolirlo: «Mio padre mi diceva sempre che se non voglio essere colpito devo star lontano dalla linea di fuoco. Così è la politica». Dal maledetto 22 novembre 1963, Lyndon Johnson si trova schierato proprio sulla linea del fuoco. E ora deve rimanerci a qualunque costo.