logo Spazio70

Benvenuto sul nuovo sito di Spazio 70

Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.

Buona Navigazione!

«Vi racconto come nacque la NCO». Intervista a Pasquale Barra (1983)

Redazione Spazio70

A cura di Sergio De Gregorio per il settimanale «Oggi»

ATTENZIONE: L’intervista a cura di Sergio De Gregorio che riportiamo di seguito, pubblicata nel 1983 dal settimanale «Oggi» e nel libro «I nemici di Cutolo» (Tullio Pironti editore) dello stesso autore, contiene una serie di dichiarazioni, rilasciate da Pasquale Barra, che saranno successivamente smentite in sede processuale. Consapevoli della completa inattendibilità del soggetto intervistato, intendiamo riproporre questo documento come testimonianza di uno dei periodi più bui per la storia giudiziaria del nostro Paese

Raffale Cutolo

Lei, Barra, afferma di essere stato fra i fondatori della N.C.O., la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Può raccontare come, dove e perché decideste di dar vita a questa organizzazione camorristica?

È una storia lunga, ma comincerò dall’inizio. Io e Raffaele Cutolo ad Ottaviano, il nostro paese di origine, siamo cresciuti insieme. Fin da quando eravamo bambini, siamo sempre stati come fratelli, fino al punto da confidarci tutto. Negli anni ’60, quando cominciarono i nostri guai con la giustizia, la Nuova Camorra Organizzata non esisteva ancora. Raffaele Cutolo finì in carcere nel ’63, quando ammazzò un certo Viscito ad Ottaviano, un tizio con il quale aveva avuto una discussione. Poco dopo fui arrestato anch’io, per un tentato omicidio. Uscimmo nel 1970, Cutolo per decorrenza dei termini di carcerazione, io, invece, in libertà definitiva. Fuori dal carcere entrammo in contatto con i fratelli De Stefano di Reggio Calabria e con un “capo di società” originario di Nicastro, di nome Egidio Muraca. Costoro ci fecero conoscere i fratelli Mammoliti, Rocco in particolare; e Francesco Cangemi, esponente dell’omonima famiglia mafiosa. Un giorno ci sedemmo ad un tavolo, e discutemmo con tutti loro la possibilità di organizzare la Nuova Camorra.

«I CAPI DELLA NDRANGHETA CI CHIAMARONO A GIURARE»

Fu un summit fra capi, insomma…

Sì, il primo summit di fondazione della N.C.O. C’erano delle difficoltà: io e Cutolo da soli non potevamo organizzare nulla. Nessuno nasce capo, e quindi per costruire una cosca dovevamo essere battezzati, “fedalizzati” come diciamo noi in gergo. I capi della ndrangheta, quindi, in questa grande riunione ci chiamarono a giurare “fino all’ultimo stillo di sangue” di essere fedeli all’organizzazione per la vita. Giurammo secondo le regole, poi chiesero a entrambi chi volesse fare il “capo di società” della Nuova Camorra. Preferii che il capo diventasse Cutolo, perché non me la sentivo di mettermi in mostra e poi anche per ragioni “strategiche”: quando, ad esempio, ammazzavo in carcere un nostro nemico, facevo in modo da tener fuori Cutolo dal fatto e da simulare disaccordo tra noi, in modo che nessuno capisse l’esistenza dell’organizzazione. L’investitura definitiva, Cutolo la ricevette verso la fine del ’78 a Galatina, in provincia di Lecce, nel corso di un grande summit: non vi partecipai personalmente, ma in carcere mi fecero sapere della riunione fra capi. Per la Camorra, parteciparono Raffaele Cutolo, Pasquale D’Amico, Michele Iafulli, Giuseppe Cacciapuoti, Giuseppe Serra, Carlo Biino e altri; c’erano i capi della ‘Ndrangheta e della Mafia siciliana.

Nella Nuova Camorra Organizzata lei, Barra, era denominato “santista”. Che cosa significa nel gergo della N.C.O.? E com’era strutturata al suo interno la vostra organizzazione?

Quando si forma una “società” di camorristi, bisogna sempre essere in cinque, in numero dispari e mai pari, secondo le regole: c’è il “Capo di Società” e dopo vengono in ordine gerarchico “Il favorevole”, “Lo sfavorevole”, “Il contabile”, e il “Mastro di giornata”. Questi ruoli, nel gergo della N.C.O., erano stati definiti con altri appellativi: Picciotto, Camorrista, Sgarrista, Santista e Vangelo. Il Vangelo è Raffaele Cutolo, capo di società; il Santista, che vuol dire braccio destro, sono io. Lo Sgarrista è il capozona; e infine ci sono camorristi e picciotti. Nelle carceri, noi della N.C.O. riuscivamo a fare in modo da sistemare in ogni padiglione un paio di sgarristi, che potessero dirigere la sezione e dare ordini ai camorristi. Lo sgarrista, infine, può giudicare anche da solo l’operato di un camorrista, mentre ci vogliono (secondo le regole) perlomeno 99 camorristi per giudicare uno sgarrista.

«CUTOLO? MI HA TRADITO»

Pasquale Barra

Verso la fine dello scorso anno lei, Barra, ha deciso di dissociarsi voltando le spalle ai suoi ex compagni. Come mai?

Pasquale Barra è un uomo d’onore, non ha mai voltato le spalle a nessuno. Nemmeno quando ammazzavo nelle carceri i nemici dell’organizzazione, non ho mai accoltellato nessuno alle spalle. È stato piuttosto Raffaele Cutolo a tradirmi, facendomi infamie che non avrei mai creduto. La Nuova Camorra Organizzata mi aveva condannato a morte già prima dell’omicidio di Francis Turatello, il boss della mala milanese che assassinai il 17 agosto 1981. Adesso vi spiego il perché. Nel 1976 la nostra organizzazione fece eliminare, nel carcere di Poggioreale, il boss calabrese Domenico Tripodo. Il braccio destro del boss, un tale di nome Chisena, voleva vendicare la morte del suo capo. Così, nel marzo del 1981, Chisena avvicinò il sottoscritto nel carcere di Fossombrone: conoscendo i miei legami con Raffaele Cutolo, mi chiese dove e come poteva incontrare il mio capo. Io gli dissi che Cutolo lo conoscevo appena, ma lui insisteva, e affermava di aver sentito dire che io ne ero il braccio destro. Chisena mi disse che prima o poi si sarebbe vendicato: e io cominciai a preoccuparmi per Cutolo. Pensai di inviargli un’imbasciata al carcere di Ascoli Piceno, mettendolo a conoscenza dei fatti e chiedendogli istruzioni. La risposta di Cutolo arrivò il giorno di Pasqua del 1981: “ammazzalo subito”. Avrei dovuto eseguire la condanna a morte il giorno successivo, ma alle cinque del mattino mi trasferirono a Napoli per alcuni processi. Lasciai l’incarico di regolare il conto con Chisena a Sabino Falco, uomo del nostro clan. Sabino eseguì, e fece fuori Chisena. Ma subito dopo l’omicidio, venni a sapere che la fidanzata di Chisena era catanese, figlia dei Cavalluzzi di Catania (membri del grande clan dei Mazzei) e che la vendetta della Mafia non sarebbe tardata. I Mazzei ordinarono ad un loro luogotenente, responsabile per le carceri, Antonino Faro, di ammazzare Sabino Falco e il sottoscritto. Falco perì nel carcere di Milano e io, agitato, chiesi a Cutolo di intervenire e far guerra ai mafiosi che volevano eliminarmi. Raffaele Cutolo non volle attaccare: “abbiamo già una guerra a Napoli contro la Nuova Famiglia”, disse, “non possiamo aprire un altro conflitto contro la Mafia”. “Ammazzate perlomeno Antonino Faro” chiesi “per dare soddisfazione alla famiglia di Sabino Falco, il nostro affiliato assassinato a Milano”. Ma non ci fu risposta: da quel giorno cominciai a tenere gli occhi aperti. Già allora, come vedete, mi abbandonarono: e avrei potuto dissociarmi, visto il tradimento…

Perché non lo ha fatto?

Perché volevo, da uomo d’onore, essere fedele fino all’ultimo. Poi arrivò “l’affare” Turatello…

Già. Fu lei stesso ad eliminarlo nel carcere di Nuoro, addentandone le budella in maniera selvaggia. Può raccontare come decideste di ammazzare Francis Turatello.

Raffaele Cutolo mi inviò un telegramma dal carcere di Ascoli Piceno. Diceva: “pregoti dare immediatamente lo stesso regalo dato a Maranga, allo zio Peppe”. In codice “Maranga” significava Antonino Cuomo, un nostro ex luogotenente che io stesso ammazzai per ordine di Cutolo nel 1980, all’interno del carcere di Poggioreale. Capii che l’ordine era di far fuori qualcuno, ma non riuscivo a immaginare chi fosse questo “zio Peppe”. In cella ero con Pasquale D’Amico, luogotenente della N.C.O.: lui aveva colloquio con la moglie Carmela Provenzano tutte le settimane. Gli dissi di farmi sapere, attraverso la moglie, chi era “Zio Peppe”: la risposta mi arrivò presto. Si trattava di Francis Turatello. Eseguii la condanna a morte senza fiatare, ma quando Turatello morì la mafia volle sapere da Cutolo perché l’aveva fatto ammazzare. Francis era figlioccio di Frank Coppola, e Cutolo lo sapeva. Ai mafiosi che gli chiedevano spiegazioni, Raffaele disse che io ero un pazzo, che avevo agito autonomamente, e che lui, il capo, non ne sapeva nulla. La mafia non gli credette: sapevano tutti che non agivo, se non dietro suo preciso ordine. Cutolo, per farsi una credibilità, diede allora ordine a tutti i cutoliani in carcere di ammazzarmi: ma si era fatto male i conti. Io avevo capito tutto. Non mi spettava di morire e allora ho preferito collaborare con la giustizia.

Quanti sono i camorristi della Nuova Camorra in Italia?

Circa duemila, in tutto. Adesso, dopo il primo blitz della magistratura, ne restano fuori ben pochi.

«LA MAFIA DI PALERMO ERA ALLEATA DI TURATELLO»

Barra, veniamo subito al caso di Enzo Tortora, il presentatore televisivo, certamente il più celebre dei suoi accusati. Tortora è veramente affiliato alla N.C.O.?

Enzo Tortora è un camorrista, affiliato alla N.C.O. Prima che Tortora fosse collegato a noi, o meglio prima che si affiliasse all’organizzazione, era in contatto con il boss Francis Turatello di Milano. Sto parlando degli inizi del 1978: noi, a quell’epoca, operavamo nel settore della droga attraverso un camorrista di nome Giuseppe Cacciapuoti. Costui, proprio in quell’anno, fu arrestato mentre veniva da Beirut con una partita di droga. Cutolo, in quel periodo, era latitante evaso dal manicomio giudiziario di Aversa. La nostra organizzazione controllava anche la zona di Brescia, il cui capozona cutoliano era lo sgarrista Oreste Pagano: la N.C.O. a Milano era in buoni rapporti con i fratelli Mazzei di Catania e con i fratelli Miani, anch’essi catanesi operanti sulla piazza di Milano. Il braccio destro di Turatello, all’epoca, era Marco Medda, con cui siamo sempre stati in ottimi rapporti (tant’è che dopo la morte di Turatello, Medda passò subito alla N.C.O.). Attraverso Medda, sapemmo che Enzo Tortora in quel periodo faceva da corriere per il boss Francis Turatello. La mafia di Palermo era alleata di Turatello (Gerlando Alberti, detto “u paccare”, i fratelli Graziani, un altro di nome Callisto ed uno soprannominato “o pupo”) aveva deciso però di non far fare più il corriere ad Enzo Tortora, perché costui aveva rifiutato di essere fedelizzato (battezzato, n.d.r.) nel clan Turatello. Tortora diceva che lui non era tagliato per fare il mafioso, e se faceva il corriere era solo perché gli servivano dei soldi per poi riprendere la sua vera attività. Noi venimmo a conoscenza di tutto ciò attraverso Marco Medda. Cercammo di avvicinare Tortora, e così facemmo. Per la mafia la perdita di Tortora non fu un gran danno: il suo posto venne preso dal compare di cresima del figlio di Turatello, e cioè il cantante Califano.

Con chi entrò in contatto Enzo Tortora?

Cutolo era latitante, ed attraverso i fratelli Mazzei (i catanesi, ndr) fissò un appuntamento con Tortora per discutere ed accordarsi. Verso la metà del 1978 fissarono l’appuntamento in casa di una donna donna nostra affiliata, una certa di nome Nadia Marzano, abitante in via Massarenti a Milano. Alla riunione parteciparono Tortora, Raffaele Cutolo, Giuseppe Serra, Carlo Biino, Pasquale D’Amico, Enzo Casillo, Corrado Iacolare e Nadia Narzano. Tortora accondiscese in tutto, e verso la fine del ’78, sempre in casa di quella donna, con quegli stessi uomini, fu fatto camorrista.

Eppure sui polsi di Tortora i magistrati non hanno trovato le cicatrici del battesimo di sangue…

Quando si fa un camorrista, durante la funzione deve essere tagliato con il coltello, come la regola impone. Ma siccome Tortora occorreva all’organizzazione come corriere della droga, si ritenne di farlo tagliare con la lametta, perché non intendevamo che potesse rimanere qualche cicatrice. Così fu fatto.

Tortora è stato ad Ottaviano? E per incontrarsi con chi?

Tortora è stato ad Ottaviano con il peruviano HUSSEIM a portare la droga: attendeva la sua venuta Enzo Casillo (luogotenente di Cutolo, assassinato, ndr) in compagnia di Corrado Iacolare (altro luogotenente, latitante, ndr) che lo accompagnarono in casa di Cutolo, dove li aspettava la sorella Rosetta per vedere la partita di “roba” arrivata.

Come fa a sapere queste cose?

In qualità di Santista, i membri dell’organizzazione e lo stesso Cutolo, dovevano tenermi al corrente di tutto, nei particolari.

«IL CASO CIRILLO? NON NE PARLO NEMMENO CON I MAGISTRATI»

Prima di dissociarsi, qual è stato l’ultimo “favore” che ha chiesto alla N.C.O.?

Nel luglio 1982, poco prima che cominciassi a collaborare, Cutolo mi mandò a dire che dovevo uccidere il giudice Costagliola, che ha rinviato a giudizio 160 cutoliani per associazione a delinquere. Dovevo chiedere di essere interrogato da quel giudice, e una volta in cella dovevo eliminarlo, in modo che sarebbero scaduti i termini di legge per i mandati di cattura e i 160 camorristi arrestati sarebbero usciti in libertà. Ma avevo già preso la decisione di collaborare, per cui non eseguii il mandato.

E veniamo al caso Cirillo. Lei, Barra, che cosa sa della trattativa per la liberazione dell’assessore DC Ciro Cirillo?

Non ne ho voluto parlare neanche con i magistrati, perché quando si collabora bisogna saper collaborare. Certi nomi ad alti livelli non intendo farli, perché non intendo essere ucciso. Se deciderò di parlare, però dirò tutto.

Perché l’hanno soprannominato l’animale?

Non lo so. In gergo mi chiamavano “Alias”, oppure “l’occhio di ghiaccio”. In qualche carcere, forse, ho fatto qualche reato da animale…

Che ruolo avevano nell’organizzazione cutoliana gli avvocati difensori Francesco Cangemi e Bruno Spiezia, legali di Cutolo?

Spiezia e Cangemi sono due camorristi: il primo portava armi e imbasciate in carcere; il secondo è cugino dei capindrangheta Cangemi di Reggio Calabria. Sono affiliati alla N.C.O. anche cinque-seicento agenti di custodia…

Che cosa pensa adesso di Raffaele Cutolo?

Quello che deve pensare è lui: io avevo abbandonato moglie e figli per seguirlo e lui mi ha tradito. E ha tradito anche i cutoliani: nel settembre ’81 offrì ai giudici la testa di 40 camorristi, in cambio della revoca del mandato di cattura per la sorella: ma la trattativa non andò in porto. Alla Nuova Famiglia, invece, era disposto ad offrire le teste dei suoi luogotenenti, in cambio di un accordo di pace. Voleva vendere anche la mia: ma non se ne fece più nulla. Cutolo non lo temo, né lui né nessuno. E poi ho saputo che è anche narciso.

Quali benefici pensa di ottenere dalla giustizia in cambio delle sue rivelazioni?

Non lo so. Una cosa è certa: il più grande dei brigatisti, Peci, ha fatto arrestare con le sue confessioni solo 120 elementi della colonna Walter Alasia; io ho fatto arrestare 850 camorristi, e quanto prima sentirete ancora parlare del sottoscritto. Tirate voi le somme.