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Arancia Meccanica alla romana, quattro anni di terrore nella Capitale

Matteo Picconi

La storia ispirerà un libro e il film cult di Claudio Caligari «L’odore della notte»

La denominazione «Arancia Meccanica» riscontra da sempre grande successo nel linguaggio dei media e, in particolare, nella cronaca nera. Ogni qualvolta fatti delittuosi, per esempio una rapina, sono accompagnati da violenze fisiche o psicologiche di gruppo, l’immaginazione collettiva rimanda alla grande pellicola di Stanley Kubrick a sua volta ispirata al romanzo di Anthony Burgess del 1962. Eppure c’è una vicenda che conserva questo «primato giornalistico», la prima (almeno in Italia) che viene accostata al film del celebre regista newyorkese: è la cosiddetta Banda dell’Arancia Meccanica, un gruppo di rapinatori, formato da ragazzi provenienti dalle borgate romane considerati responsabili di oltre seicento rapine, avvenute tra il 1979 e il 1983, molte delle quali perpetrate negli appartamenti o nelle ville situate nei quartieri più ricchi della Capitale. Una vicenda che nel corso degli anni Ottanta ha fatto molto discutere sia per la controversa evoluzione processuale che ne è conseguita, sia per il coinvolgimento di personaggi «eccellenti», spesso legati al mondo dello spettacolo. Una storia capace di colpire e ispirare, a sua volta, un libro («Le notti di Arancia Meccanica» del giornalista Dido Sacchettoni) e il celebre film «L’odore della notte» (1998), firmato dal regista Claudio Caligari.

UNA BANDA ANOMALA, UNICA NEL SUO GENERE

Foto segnaletiche di Verbena, Panetta e Leoncavallo

I tre protagonisti della Banda dell’Arancia Meccanica

Proprio come nel film di Caligari, la storia di questa banda ruota tutta attorno a tre personaggi. Protagonista indiscusso è Agostino Panetta, considerato il capo e la mente del gruppo. Romano, classe 1959, quando viene tratto in arresto nel 1983 Panetta ha appena ventiquattro anni e centinaia di rapine alle spalle. Ex poliziotto, figlio di un funzionario di pubblica sicurezza, il giovane Agostino inizia la sua carriera criminale nel 1979 quando è ancora in servizio presso la Celere di Torino.

«La prima rapina avvenne il 3 gennaio del 1979. Con lui», si legge su un articolo de La Stampa pubblicato il 14 marzo 1986, «c’erano altri due ex poliziotti, Mauro Vergaro e Giuseppe Falcione. La vittima era un ignaro passante, Luigi Sina. Il bottino molto magro: 300.000 lire più un orologio d’oro».

Inizia così Panetta, un poliziotto insofferente alle regole, a cui le duecentocinquantamila lire di stipendio presso le forze dell’ordine non bastano più. Poco tempo dopo lascia la polizia a seguito di diverse sospensioni dal servizio per scarso rendimento e torna nella sua borgata di Torre Angela. La parentesi torinese, racconterà ai giudici, si chiude con una decina di rapine. Forte della breve esperienza di ex poliziotto e dei piccoli colpi messi a segno nel capoluogo piemontese, Panetta intuisce che le rapine, se svolte in una determinata maniera, minimizzando il più possibile i rischi, possono fruttare parecchi soldi. Come il Remo Guerra di Caligari, però, ha bisogno di persone fidate, «non sanguinari ma gente coi nervi saldi», come spiegherà nel corso del processo. Ed è così che alla fine del 1979 diviene una sorta di «padrino del crimine» per i giovani della borgata. Gli inquirenti ne individuano anche la base operativa, il bar Paquito di via dei Coribanti.

«Agostino Panetta torna con la valigia quasi vuota e si siede ai tavoli del Pachito con i suoi futuri alleati e complici. Racconta le sue gesta e spiega», si legge su L’Unità del 18 novembre 1984, «quanto è più facile aggredire poche persone alla volta, invece di rischiare alle Poste, o in groppa al motoscooter».

Al bar di via Coribanti (che lo stesso Panetta acquisterà l’anno seguente) c’è la fila per collaborare con l’ex poliziotto, ma sono due i personaggi che assumono un ruolo chiave nelle imprese della futura banda dell’Arancia Meccanica. Il primo è Giuseppe Leoncavallo, figlio di un autodemolitore di Tor Vergata, insegnante di karate in una palestra di Centocelle. Certamente è lui che ha ispirato «il Rozzo» di Caligari stando almeno alla descrizione che, nel già citato articolo de L’Unità, riporta il giornalista Raimondo Bultrini: «Giuseppe Leoncavallo, 25 anni, licenza elementare, tratti e movenze da orso, definito dai suoi ex compagni rozzo, incolto, perfido, maligno, ma un sacco intelligente, e temuto da tutti».

L’altro personaggio è Maurizio Verbena, considerato il numero due del gruppo. Scaltro e intelligente, secondo la ricostruzione del giornalista de L’Unità sussiste una sorta di dualismo tra lui e Panetta, con il secondo che non può però fare a meno del primo: «C’è odio e amore tra i due, ma soprattutto Verbena gli serve, perché ha sempre le automobili pronte, e rimedia tutte le armi che vuole. Gli altri arriveranno dopo».

Gli altri, cui allude Bultrini, sono decine di giovani della borgata, delinquenti occasionali, perlopiù ricettatori. Si delinea così il profilo di una banda anomala: non si tratta di boss né pezzi grossi della malavita, bensì al contrario di elementi scollegati con le altre realtà dominanti della criminalità organizzata romana a cavallo tra anni Settanta e Ottanta. Eppure, per oltre un triennio, terrorizzeranno una parte della città, la Roma dei ricchi. Come scrive Flaminia Savelli, nel suo libro «Roma giallo nera», rappresenteranno «un caso unico, probabilmente irripetibile nel panorama della delinquenza di questa Capitale che non ha mai conosciuto, prima di loro, una banda di quartiere aggregata e compatta, di visi riccioluti e coatti, uguali e disciplinati».

LA «BANDA DELLA FRUTTA», IL SALTO DI QUALITÀ

Banda Arancia Meccanica

Ritaglio de La Stampa del 14 marzo 1986

La prima rapina nella Capitale avviene nel febbraio del 1979, con le stesse modalità che Panetta aveva messo in atto a Torino: individuazione e inseguimento della vittima, aggressione in un luogo isolato, percosse e minacce. Nelle sue «uscite» serali l’ex poliziotto agisce insieme a un massimo di due o tre persone. Comincia a battere i quartieri più ricchi, lungo la via Cassia, Corso Francia, Fleming, Olgiata, Parioli ma anche i quartieri residenziali a sud della città, in particolare dalle parti dell’EUR. Le rapine su strada, però, non fruttano molto, ragion per cui arrivano a metterne a segno più di una nel corso della stessa notte. «Una sera» si legge in una dichiarazione di Panetta riportata su La Stampa nel 1986 «abbiamo assalito ben cinque automobilisti, depredandoli degli oggetti preziosi e del denaro. Si è trattato di un vero e proprio record…».

Per far fronte a un tenore di vita sempre più alto, la banda di Panetta alza il tiro e all’inizio del 1981, con già un centinaio di rapine alle spalle, cambia strategia: non più aggressioni per la strada, dove le possibilità di essere avvistati sono molto più alte, bensì all’interno delle abitazioni, spesso ville o lussuosi appartamenti. È il salto di qualità, che alza la posta in gioco. Se da un lato la refurtiva si fa più cospicua, dall’altro i tempi delle rapine si dilatano con le vittime da gestire, all’interno delle proprie case, a volte anche per ore.

È sempre Panetta a spiegare ai giudici come valutava i suoi collaboratori nel corso delle rapine: «La prova del nove sulla loro bravura l’avevo dopo sei ore a contatto con le vittime. Io e gli altri due, soli in casa con la famiglia riunita. Alla fine, se non ci sai fare, crolli prima dei rapinati».

Inizialmente i giornali la chiamano «banda delle ville» o «banda della frutta», per l’abitudine dei rapinatori di soffermarsi per intere notti nelle abitazioni dei rapinati, spesso «banchettando» con quel che trovano. Come successivamente viene poi messo in risalto dagli inquirenti, non c’è solo una componente di sadismo da parte del gruppo: Panetta, che evidentemente non ha perso i suoi agganci in polizia, conosce bene gli orari di uscita delle volanti dei commissariati vicini e aspetta il momento più opportuno per lasciare le case delle sue vittime.

È passato dall’altra parte ma ragiona ancora come un poliziotto. Nel corso dei processi Panetta usa spesso un linguaggio più militare che criminale: chiama «sopralluoghi» gli appostamenti presso le ville e le abitazioni da rapinare; chiama gregari o «i miei secondi» i ragazzi di volta in volta aggregati alle sue azioni. Tra questi c’è anche un certo Domenico Terzich che così descrive Panetta nel corso di un’udienza: «Era un tipo troppo gasato», riporta un articolo pubblicato su La Repubblica del 7 marzo 1986, «troppo coraggioso. Non aveva paura di niente. Era matto. Io tremavo di paura mentre facevo quelle cose, lui invece era sempre troppo sicuro di sé».

IL TERRORE DEL «JET SET»

Banda Arancia Meccanica

L’attore Fabio Testi con la moglie in aula nel 1986

La peculiarità della banda proveniente da Torre Angela non consiste solo nell’incredibile numero di colpi messi a segno (si parla tra le seicento e le settecento rapine compiute in meno di quattro anni) bensì nel contare tra le vittime depredate delle loro ricchezze personaggi illustri, spesso vicini al mondo dello spettacolo.

«Tra i nomi noti» si legge su La Repubblica del 28 febbraio 1986 «spiccano quelli del cantante Peppino di Capri, l’editrice Adelina Tattilo, i produttori cinematografici Franco Cristaldi e Carlo Maietto, avvocati di grido come Fausto Perrone, il famoso arbitro di calcio Massimo Ciulli, il consigliere di Stato Giuseppe Carbone, l’attore Fabio Testi».

Il caso Testi, che segna l’esordio della banda nelle ville, è uno dei dibattuti nelle successive vicende giudiziarie. La sera del 16 febbraio 1981 la Rolls Royce dell’attore viene notata da Panetta e Leoncavallo all’altezza di Corso Francia. Insieme a un altro complice, tale Paolo De Feo, i tre inseguono l’auto fin sotto l’autorimessa di Testi, immobilizzando lui, la moglie incinta e un’amica, per poi salire con loro all’interno dell’abitazione. La versione dell’ex poliziotto, chiaramente contestata dall’attore anni dopo, ci rimanda l’immagine di una rapina all’insegna della cordialità e della distensione, accompagnata perfino da champagne e strette di mano. «Ci accompagnò all’ascensore» racconta Panetta, secondo quanto riporta La Stampa nel marzo del 1986 «e ci strinse la mano. C’eravamo accordati di far valutare la merce che stavamo portando via, quattro o cinque pellicce ed un set fotografico, perché lui era intenzionato a riacquistarla».

Vero o no, il caso Testi stride con gli altri innumerevoli casi in cui le rapine sono, al contrario, accompagnate da violenze e intimidazioni. Ma sono soprattutto le accuse di violenza sessuale che scatenano l’opinione pubblica e che, sul fronte mediatico, valgono alla banda il nome di Arancia Meccanica. Lo stesso Panetta, una volta arrestato, confesserà sette stupri, ammettendo inoltre che la minaccia di violenze sessuali era un ottimo sistema per far aprire casseforti o preziosi nascosti nelle abitazioni. Nel corso del processo farà molto discutere il «caso Guerani»: da una parte la donna, una quarantenne residente in zona Monte Mario, che nega di aver subìto alcun tipo di violenza; dall’altro Panetta che l’accusa di essersi concessa spontaneamente, a lui e al suo complice. La donna e l’ex poliziotto hanno un confronto a porte chiuse nel corso di un’udienza del 1986: dieci minuti di insulti che non fanno che gettare ulteriori ombre sulla vicenda; stessa sorte per altri casi di stupro. Per Panetta e i suoi complici, infatti, cadono le accuse di violenza sessuale fin dal primo grado di giudizio.

Le centinaia di rapine messe a segno dalla banda hanno un effetto travolgente nelle zone più «in» della Capitale, tanto da cambiarne abitudini e stile di vita. Molte delle famiglie facoltose, infatti, lasciano le ville dei quartieri residenziali per spostarsi negli appartamenti-bunker del centro storico; alcune ricorrono ai vigilanti o a vere e proprie guardie del corpo oppure si controllano a vicenda dalle finestre. Un clima di terrore, insomma. Il tutto dovuto a un gruppo di giovani borgatari provenienti dalle lontane periferie ad est della città.

«Mi sentivo quasi inviolabile» dichiara a più riprese Panetta nel 1986. Inviolabile e imprendibile, appunto, come in un film. Ai giudici racconta pure di essere stato fermato dalla polizia nel 1980 nei pressi di Palestrina, paese ad est di Roma. La scena, anch’essa in parte richiamata nel film di Caligari, viene descritta su L’Unità in un articolo del marzo 1986: «Ed ecco come racconta il famoso (parole sue) fermo di Palestrina. “Io e Castaldi – altro complice – eravamo a Palestrina per una cena. Prima di andare a mangiare decidemmo quasi per scherzo di andare a rapinare qualcuno, tanto avevamo due o tre ore di tempo senza far niente. Trovammo una coppia. ma poi lasciammo stare perché erano nullatenenti”. Invece di essergli grati, i due “nullatenenti” segnalarono la loro auto a un poliziotto. Ma anche Panetta era un agente, e liquidò i suoi colleghi mostrando il tesserino, sotto lo sguardo esterrefatto del suo complice che lo credeva un onesto rapinatore».

Eppure è proprio una loro leggerezza, o un eccesso di sicurezza, a mettere gli investigatori sulle loro tracce. Tutto avviene nel corso dell’ultima rapina, ai Parioli, nella quale Panetta e compagni avevano lasciato intendere che sarebbero tornati nelle vicinanze per colpire ancora. La zona in questione è quella dell’elegante via Linneo, dove il 16 aprile 1983 i Carabinieri li attendono e arrestano prima di entrare in azione. Mentre scattano le manette per Panetta e Leoncavallo, Maurizio Verbena riesce a fuggire all’estero. Lo troveranno in Australia l’anno seguente, a Perth, dove aveva ricominciato una nuova vita. Per la cosiddetta «Roma bene» è la fine di un incubo.

PENTITO «PER CONVENIENZA»

Banda Arancia Meccanica

Panetta e Verbena durante il processo nel 1986

59 imputati, 279 parti lese, oltre 15 miliardi di lire la stima dei preziosi rubati. Sembra più il processo a una cosca mafiosa piuttosto che a una banda di quartiere. Il 4 marzo del 1986, nella grande aula del Foro Italico, gli sguardi di vittime e carnefici tornano a incrociarsi: «La palestra», si legge l’indomani su La Repubblica nell’edizione del 5 marzo, «sin dalle prime ore, si divide in due. Due fronti opposti: da un lato le parti lese, famiglie, coppie, professionisti benestanti; dall’altro il pubblico, parenti e amici degli imputati, gente semplice, abituata ad una vita di borgata. Gli sguardi, i vestiti sfoggiati, le facce dure o gli atteggiamenti costruiti, tradiscono rabbia, illusioni, speranze sofferte».

Sul fronte delle «vittime» ci sono volti noti, come i già citati Fabio Testi e il cantante Peppino Di Capri. Aleggia tensione, risentimento, ma anche un certo timore, amplificato dalla grande risonanza mediatica che il processo suscita verso l’opinione pubblica. Molti di loro sono difesi dallo stesso legale, l’avvocatessa Tina Lagostena Bassi, che in un’intervista concessa a La Repubblica proprio in quei giorni spiega così lo stato d’animo dei suoi assistiti: «È stata come una catena. Si sono fatti coraggio a vicenda. Venivano qui, mi chiedevano se potevo difenderli. È incredibile il disagio e l’imbarazzo che prova questa gente».

Sul fronte degli imputati, alla vigilia del processo i tre protagonisti prendono strade differenti: Panetta e Verbena si pentono; Leoncavallo sceglie al contrario di non collaborare. Ma è Panetta che continua a recitare il ruolo di attore protagonista, rubando la scena tanto ai suoi complici quanto alle sue stesse vittime. L’ex poliziotto si presenta in aula con un’agenda, e da buon «ragioniere del crimine», come lo apostrofa la stampa, racconta decine e decine di rapine avvenute nel triennio precedente. In aula ostenta sicurezza e serenità, sembra quasi compiaciuto del suo ruolo di pentito; nel corso di un’udienza si offre persino di collaborare con le forze dell’ordine per prevenire il crimine, di cui si reputa un esperto conoscitore. Conseguentemente alle sue rivelazioni, oltre cinquanta persone finiscono alla sbarra: ladruncoli occasionali, tossicodipendenti, ricettatori da bar. «Una banda di scemi, disadattati, emarginati»; così l’ex poliziotto liquida quelli che fino a poco tempo prima definiva i suoi gregari.

Al centro dell’attenzione dei giornalisti si pone soprattutto il profilo personale di Panetta, la sua adolescenza difficile, la severità del padre poliziotto, l’insofferenza nei confronti delle regole. «Ho avuto l’ossessione di non valere nulla per tutta la fanciullezza, l’adolescenza…», si legge in una sua dichiarazione rilasciata a La Repubblica alla vigilia del processo. «Mi aveva educato come i suoi cani. Eh… la storia dei cani… li abbiamo sempre avuti. Mio padre li teneva legati tutto il giorno, li incitava a catturare le galline. Quando li slegava, quelli scaricavano un’aggressività devastante. Così è stato per me».

Le attenuanti di un passato difficile, sostenute a gran voce anche dal suo legale, non hanno la meglio sulle aggravanti. Rispetto a Verbena, Panetta viene considerato un pentito solo «per convenienza» e in primo grado viene condannato a ventitré anni di reclusione, uno in meno di Leoncavallo, mentre per Verbena la pena comminata è pari a diciotto anni. A queste si aggiungono condanne a doppia cifra anche per altri personaggi tirati in ballo da Panetta che, oltre a non aver beneficiato di nessun sconto di pena per la sua collaborazione, ora è anche considerato un «infame» dai suoi vecchi compagni della banda. Lo stesso Verbena subisce un’aggressione in carcere da un altro detenuto, Giuseppe Tomasso, anche lui condannato a undici anni di reclusione per gli stessi reati.

«AVEVO PREPARATO UN SOGGETTO, MA ME L’HANNO RUBATO»

Banda Arancia Meccanica

Valerio Mastandrea e Marco Giallini in L’odore della notte

Considerato il venir meno delle accuse di stupro e quelle di tentato omicidio (fatta eccezione per due ferimenti accidentali di arma da fuoco la banda ha sempre evitato spargimenti di sangue nel corso delle innumerevoli rapine compiute), le pene inflitte a Panetta e compagni vengono considerate esemplari. «I ricchi avevano avuto la loro vendetta», recita l’attore romano Valerio Mastandrea nei panni di Remo Guerra, il personaggio ispirato all’ex poliziotto. Pene che si riducono lievemente in appello nel 1987 mentre l’apparato accusatorio non si sposta di una virgola.

«Ho scontato ventotto anni di carcere», dichiara Panetta in un’intervista rilasciata a Il Messaggero nel 2018, «e sono stato accusato per settanta rapine. Poi mi sono pentito, ho fatto i nomi di tutti gli altri membri della banda. Ma a quel tempo era diverso. Non esistevano leggi o programmi di protezione che tutelavano i pentiti e li facevano uscire dalla galera per questo ho scontato ogni singolo giorno di pena».

Le cronache ci dicono altro, ovvero che l’ex poliziotto sia uscito dal carcere all’inizio degli anni Novanta. Nel 1995 le forze dell’ordine trovano nella borsa della sua compagna 25 grammi di cocaina. L’anno seguente si trova nuovamente coinvolto in un traffico di stupefacenti nella zona del Portuense per il quale viene condannato a sei anni. Nel 2003, mentre sta beneficiando di un permesso premio, viene fermato dalla polizia dalle parti di Tor Bella Monaca: dentro alcuni flaconcini, apparentemente contenenti medicinali, gli agenti trovano quasi 100 grammi di cocaina.

Un declino lento e logorante quello di Panetta. Quando tutti i riflettori, più di trent’anni fa, erano puntati su di lui, aveva deciso di scrivere un libro sulle sue imprese delittuose. «Avevo preparato un soggetto, ma me l’hanno rubato», dichiara nella già citata intervista a Il Messaggero, alludendo al libro «Le notti di Arancia Meccanica» di Dido Sacchettoni, pubblicato proprio nel 1986. Il giornalista ha ascoltato e intervistato a lungo l’ex poliziotto durante i primi due anni di detenzione. Ne esce una sorta di romanzo-verità in cui l’autore offre uno spaccato crudo e realistico della delinquenza comune nelle borgate romane, scevro da distorsioni sensazionalistiche o di tipo narrativo. Un potenziale soggetto cinematografico che non poteva sfuggire all’attenzione del regista piemontese Claudio Caligari, morto nel 2015. Il suo Remo non è né l’Alex di Burgess e Kubrick, né l’ex poliziotto di borgata: «C’è chi corre in machina e c’è chi se butta cor paracadute e lo apre alla fine… io se me devo spaccà lo faccio come me pare». Tra realtà e letteratura, si può concludere che tutti e tre, giunti alla resa dei conti, «hanno voglia di perdere»; in nessuna delle tre storie, infatti, c’è un lieto fine.