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«O si cambia tutto o andiamo a fondo». Ugo La Malfa sulla crisi economica di metà anni Settanta

Redazione Spazio70

Da una intervista di Marzio Bellacci

Il 1976 si è chiuso con una serie di sacrifici che non accennano a finire per buona parte degli italiani. A rendere più scuro il domani, contribuiscono una ridda di dati economici, di ipotesi di ripresa tra loro diverse e contrastanti. Per vederci più chiaro abbiamo posto una serie di domande a Ugo La Malfa, l’uomo politico che più di ogni altro, da sempre, denuncia gli errori dei governi, indica strade nuove da battere, invita a stringere la cinghia. Il 28 febbraio di tre anni fa, La Malfa, allora al dicastero del Tesoro, si dimise all’improvviso, dopo una burrascosa seduta del Consiglio dei ministri, per protestare contro le indecisioni con cui i suoi colleghi rispondevano alle difficoltà economiche del Paese. Tornato in seguito alla vicepresidenza del Consiglio, non ha mai cessato di offrire la sua esperienza critica alla nazione.

In una situazione ancor più difficile di quella del 1974, gli abbiamo chiesto di spiegare quale è la realtà attuale, che speranze vi sono di uscire dalla crisi, quali strade battere per evitare la bancarotta.

Lei da anni predica la necessità per gli italiani di affrontare determinati sacrifici. Della loro opportunità ora sono convinti un po’ tutti: ma siamo ancora in tempo?

Purtroppo ai repubblicani è toccata una ben triste sorte. Fino al 1969 hanno indicato una via, attraverso la programmazione e la politica dei redditi, che avrebbe garantito un sempre maggiore sviluppo economico con la possibilità di risolvere i problemi della disoccupazione e delle riforme: ma non sono stati ascoltati. Dal 1969 in poi hanno intravisto, minacciosa, la possibilità di una crisi in continua crescita e hanno messo in guardia gli italiani contro gli errori che si stavano, via via, compiendo: sono stati ugualmente inascoltati. Continuando a sbagliare i sacrifici da affrontare si fanno più gravosi. La mia personale impressione è che né i sindacati, né i gestori delle istituzioni pubbliche hanno un comportamento tale da farci uscire dalla crisi. I primi non vogliono tenere conto che i costi del lavoro sono troppo alti: i secondi continuano a spendere come se l’Italia fosse nelle condizioni finanziarie più rosee del mondo. Con queste premesse, nonostante le rinunce chieste ai contribuenti, non si bloccheranno né crisi, né inflazione. I due fenomeni tenderanno, invece, ad aggravarsi.

Alla stangata fiscale del governo, il cittadino medio ha risposto con un’ampia dose di buona volontà. Ne avrà una contropartita?

Avrà la contropartita di una crisi risolta se, come ho detto, sindacati e responsabili della cosa pubblica faranno il loro dovere. Altrimenti tutti i sacrifici saranno stati vani.

In queste ultime settimane il disorientamento di fronte a quanto si deve fare sembra essere diventato generale: il ministro del Tesoro, Stammati, dice che occorrono altre imposizioni fiscali: quello della Finanza, Pandolfi, dichiara che non vi è più margine per il fisco. Chi ha ragione?

A mio avviso occorre che il ministro del Tesoro abbia il coraggio di imporre rilevanti tagli alle spese dello Stato e induca regioni, province, comuni, enti pubblici a un altrettanto severo calo delle loro uscite. L’Inghilterra laburista ha ridotto la spesa pubblica di 1400 miliardi di lire per il 1977 e prevede un’ulteriore decurtazione di ben 2800 miliardi per il 1978.

Si parla molto di inflazione e deflazione. Quale è il punto di rottura oltre il quale si arriverà a una stasi vera e propria dell’economia, con il fantasma della disoccupazione che diventerebbe una realtà?

Se si vuole vincere l’inflazione nel più breve tempo possibile, scendendo dal livello attuale di perdita di potere di acquisto della moneta, che supera il 20 per cento, a una misura più consona con le altre economie europee, le restrizioni devono essere energiche e quindi la deflazione severa, con conseguenze inevitabili sull’occupazione. Se al contrario si scelgono tempi più lunghi, la deflazione può essere meno dura. In altri termini, con una cura energica si esce dai mali più presto, con una più leggera si ritarda la guarigione. L’Inghilterra ha scelto la prima strada e dopo aver toccato il fondo della deflazione proprio in questi giorni ha registrato un miglioramento sui mercati dei cambi per la sterlina e una crescita nel volume degli investimenti, il che vorrà dire, prima o poi, un aumento dell’occupazione. Disgraziatamente l’Italia, in questo periodo, non ha né una politica per uscire in fretta dall’inflazione né una misura per uscirne in un certo numero di anni.

Governo e sindacati non trovano un accordo sul costo del lavoro. E proprio necessario bloccare la scala mobile o le proposte sindacali per un miglior impegno in fabbrica potrebbero essere sufficienti a riequilibrare la nostra forza industriale? Che possibilità concrete vi sono per ridurre le spese del settore pubblico?

Per mutare la situazione bisogna incidere parallelamente sui costi del lavoro e sulla spesa pubblica. A mio giudizio occorre rivedere il meccanismo della scala mobile e ciò nell’interesse stesso dei lavoratori per una futura certezza del loro posto. Non credo che, rispetto a questa necessità, i sindacati siano in grado di offrire alternative valide. Per quanto riguarda le uscite dello Stato, le limitazioni possibili sono innumerevoli e i repubblicani ne hanno indicate molte. Bisogna che governo e altre istituzioni facciano quello sforzo, in questa direzione, che non è mai stato fatto.

All’estero ci chiedono con insistenza una revisione della contingenza, subordinandovi eventuali prestiti. E’ un parere oggettivo o pecca di scarsa conoscenza della realtà sociale italiana?

E’ una richiesta fondata, derivante da una conoscenza adeguata che gli esperti stranieri hanno delle leggi dell’economia e dei modi per risolvere qualsiasi crisi. E’ soltanto malinconico che l’Italia si faccia dire da autorità straniere quello che essa dovrebbe saper fare da sé. Per tornare all’esempio inglese, in quel Paese vi è stato un accordo con i sindacati che limita la dinamica dei salari e riduce drasticamente la spesa pubblica. In questo modo la Gran Bretagna ha ottenuto dal Fondo monetario internazionale un prestito di ben quattro miliardi di dollari. Pensare che noi possiamo continuare in una politica più allegra di quella inglese è una follia.

I sindacati chiedono con insistenza programmi concreti sull’utilizzo dei soldi drenati attraverso il fisco. Ma vi è ancora tempo disponibile per programmare?

Da anni il movimento sindacale vuole programmare tutto, salvo la dinamica delle remunerazioni. Tralasciare questo ultimo aspetto significa non programmare nulla, poiché i salari, in una economia di massa, sono un fatto da cui non si può prescindere per decidere il resto, anche se il reddito da lavoro non è il solo colpevole. Volerlo, però, considerare una variabile indipendente è proprio l’errore commesso dai sindacati e che ha fatto precipitare la crisi economica.

Si parla di circolazione alternata delle auto nei giorni festivi e di razionamento della carne. Sono proposte demagogiche o hanno un impatto significativo sul contenimento di certi consumi?

Se non si prendono decisioni di fondo che incidano sulla situazione, è quasi improduttivo rifarsi a provvedimenti secondari. Questi ultimi possono accompagnare una azione di fondo, non possono però sostituirla.

Giorgio Amendola ha rilanciato proprio per risolvere la crisi il concetto di governo di salute pubblica. E’ indispensabile o vi possono essere alternative diverse?

Occorrono governi che sappiano affrontare la crisi con il dovuto coraggio e il necessario rigore. Noi non sappiamo se un governo di salute pubblica sarebbe idoneo allo scopo. In ogni caso, i governi qualunque sia la loro composizione, vanno soppesati in base alla capacità di affrontare e risolvere i momenti più difficili. Ed è da questo punto di vista che i repubblicani giudicano l’attuale compagine alla guida del Paese. Finora l’esperienza è stata deludente. Auguriamoci che qualcosa di meglio offra l’avvenire.

Se esiste una speranza, quale programma lei proporrebbe per evitare il baratro?

Cercherei di ottenere la riduzione del costo del lavoro e quello della spesa pubblica. Se, come governante, non riuscissi a raggiungere questo semplice fine, mi presenterei in Parlamento e ammetterei che ho impossibilità di governo, declinando ogni incarico. Troppe forze affermano di voler combattere la crisi e poi non fanno nulla di serio per vincerla. Se dei governanti lasciano il loro posto poiché non sono in grado di fare il bene del Paese, compiono un gesto produttivo e molti nodi verranno al pettine.