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Prima del Circeo. Il 1974 e la «Roma bene» di Angelo Izzo

Matteo Picconi

Ghira e Izzo erano noti alle forze dell’ordine e alla giustizia ben prima dei terribili fatti del settembre 1975. Entrambi furono scarcerati dopo una breve detenzione

Pochi personaggi riescono a scuotere l’opinione pubblica come Angelo Izzo. Criminologi, psicologi e psichiatri, avvocati, giornalisti e scrittori, in molti si sono cimentati nell’analizzare e descrivere un criminale dalla personalità così complessa. Nella sua breve esistenza da uomo libero (e semilibero) si è reso protagonista dei reati peggiori, che vanno dalla rapina all’omicidio. Quando si parla di Izzo, classe 1955, due ergastoli sulle spalle, si parla generalmente del «mostro», del torturatore, del violentatore di donne; si parla del massacro del Circeo (1975) e di Ferrazzano (2005), due episodi avvenuti a distanza di trent’anni ma con tante, terribili, analogie.

Tra gli esperti c’è chi considera Angelo Izzo un serial killer, pur non avendo probabilmente «i numeri» per essere accostato a un assassino seriale. Se è vero che la storia non si ricostruisce col senno del poi, una domanda sorge comunque spontanea: cosa sarebbe successo se la sera del 30 ottobre 1975 Gianni Guido non avesse lasciato la sua auto in via Pola con la diciassettenne Donatella Colasanti ancora in vita, chiusa nel bagagliaio insieme al corpo senza vita di Rosaria Lopez? Probabilmente Guido, Andrea Ghira e, soprattutto, Izzo avrebbero continuato indisturbati a torturare, violentare e uccidere. Ci sarebbero state altre vittime come Rosaria o Donatella, o come Maria Carmela Limucciano e Valentina Maiorano, rispettivamente moglie e figlia del pentito Giovanni Maiorano, uccise da Izzo nel 2005 mentre era in semilibertà.

Un po’ come avvenuto nel 2005, con l’inevitabile polemica circa le misure concesse ad Angelo Izzo, anche nel 1975 i giornali accusarono le autorità di una certa «leggerezza» nei confronti dei massacratori del Circeo. Se si esclude infatti Gianni Guido, incensurato fino al tragico evento, sia Andrea Ghira che Izzo erano ben noti alle forze dell’ordine e alla giustizia: il primo, pochi mesi prima, era stato processato e condannato per rapina; il secondo, già denunciato per alcune aggressioni a sfondo politico, era stato condannato per violenza carnale nei confronti di due ragazze minorenni. Entrambi furono presto scarcerati dopo una breve detenzione. Per i due casi di stupro che vedono protagonista Izzo, risalenti al 1974, non sembrano esserci fonti dirette: di fatto saltano alle cronache soltanto l’anno seguente, all’indomani del macabro ritrovamento nel quartiere Trieste.

«HO CAPITO CHI È IL SIGNORINO E CHI POSSANO ESSERE I SUOI AMICI»

Il ritrovamento di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti in via Pola

Occorre partire da quella tragica notte tra l’1 e il 2 ottobre 1975, quando nella elegante via Pola, intorno all’una, alcuni residenti allertano le forze dell’ordine per dei lamenti provenienti dal bagagliaio di una FIAT 127. Come racconterà Antonio Monteforte, il fotoreporter del Il Tempo che scattò le terribili immagini del ritrovamento delle due ragazze della borgata Montagnola, la segnalazione giunse telefonicamente alla centrale dei Parioli in questi termini: «Cigno, cigno… c’è un gatto che miagola dentro una 127 in viale Pola».

La 127 risulta intestata a Raffaele Guido, importante funzionario della Banca Nazionale del Lavoro. Non è stato certo lui a parcheggiare l’auto poco tempo prima, bensì il figlio diciannovenne, Gianni, che viene fermato a poche decine di metri da via Pola mentre assiste attonito all’intervento dei carabinieri. Tratto in arresto, Gianni Guido si chiude nel più assoluto silenzio: per uno dei due complici, Andrea Ghira, saranno ore fondamentali per sottrarsi alla cattura e iniziare una latitanza interrotta solo con la sua presunta morte avvenuta nel 1994 a Melilla, nel Marocco spagnolo. Anche Izzo, fermato da una volante a poche decine di metri dalla 127, si mostra subito poco collaborativo con le forze dell’ordine. Queste ultime, però, ci mettono veramente poco a inquadrare i due fermati, almeno secondo quanto riportato il giorno seguente da Ulderico Munzi, inviato del Corriere della Sera:

«In una stanzetta della tenenza Parioli un brigadiere, leggendo il suo nome (di Gianni Guido, ndr), si dà improvvisamente una botta sulla fronte. “Ci sono!” dice “ho capito chi è il signorino e chi possono essere i suoi amici”. Menicucci, così si chiama il brigadiere, torna sventolando un fascicolo: è un tentativo di violenza carnale… una minorenne fu violentata».

A quel punto per gli investigatori stringere il cerchio intorno agli «amici» di Guido diviene un gioco da ragazzi. Anche perché di fascicoli, denunce e segnalazioni, ve ne sono parecchi: si tratta di ragazzi intorno ai vent’anni, di non velate simpatie fasciste, tutti facenti parte della cosiddetta «Roma bene», figli di noti imprenditori, costruttori, architetti, che frequentano il giro di Piazza Euclide o del quartiere Trieste-Salario; quasi tutti hanno avuto a che fare con la giustizia. Dopo i nomi di Guido e Izzo, per i fatti del Circeo vengono arrestati e sbattuti in prima pagina altri quattro giovani, successivamente prosciolti nel corso delle indagini: Gianluca Sonnino, Giampietro Parboni Arquati, Maurizio Maggio e Giovanni Sovena. Nelle cronache di quei giorni non emergono soltanto gli orrori patiti dalla Lopez e dalla Colasanti nella villa di Andrea Ghira, bensì esce fuori tutto il sottobosco criminale in cui questi «sanbabilini romani» (così li chiama inizialmente la stampa dell’epoca) operano fin da giovanissimi, compiendo reati che vanno dal furto all’aggressione, finanche alle rapine e allo spaccio di stupefacenti.

«SANBABILINI ROMANI»

In senso orario Gianni Guido, Angelo Izzo, Giampietro Parboni Arquati e Gianluca Sonnino

Chi sono dunque questi «signorini»? Non si può non partire proprio da Angelo Izzo. Nato a Roma nel 1955, figlio di un noto ingegnere edile, nel 1975 Izzo è iscritto alla facoltà di Medicina a La Sapienza. L’anno prima si diploma all’Istituto San Leone Magno, prestigiosa scuola cattolica sita in piazza Santa Costanza, frequentata dai già citati Guido, Parboni Arquati e Sonnino. Inizialmente iscritto al MSI insieme a Andrea Ghira, ne viene presto allontanato con l’accusa di occultare ciclomotori rubati nel cortile della sede missina di via Tolmino. Noto per essere un picchiatore di «rossi», più volte segnalato per aggressione, nel 1972 viene denunciato per aver minacciato con una pistola un giovane studente antifascista. Ma non c’è solo la politica ad animare il tandem Ghira-Izzo: nel 1973 i due vengono accusati di una rapina ai danni di un industriale residente in via Panama; il primo viene condannato a due anni, il secondo prosciolto per insufficienza di prove. Il controverso e complesso profilo criminale del ventenne Angelo Izzo viene ben tracciato da Giuseppe Di Dio in un articolo pubblicato su Il Messaggero del 5 ottobre 1975:

«Ha sempre dato grossi problemi al papà. Nel ’72 l’ingegnere convinse il figliolo ad accettare le cure e l’assistenza di uno psichiatra, Mario Cimica, che lo trovò affetto da nevrosi maniaco depressiva e da alterazioni della sessualità, anche a causa di una fimosi tardiva. La fimosi è un intervento genito-urinario che talune liturgie religiose praticano sistematicamente, ma in età prepubere (la circoncisione), per permettere ai giovani di svilupparsi sessualmente nella maniera più corretta. Per Angelo non era stato così. Era stato circonciso da un urologo a sedici anni di età, quando era ormai un po’ tardi per evitare le conseguenze di una prevedibile menomazione (o iposviluppo) anatomico. Evidentemente – e lo dice lo stesso psichiatra – questo “difetto anatomico” aveva marcato nella sfera emotiva il soggetto. Comunque era stato sottoposto a terapia con psicofarmaci. Solo che ci aveva preso gusto ed era andato molto oltre la cura […] Batte con i suoi amici i Parioli, il Nomentano e persino le borgate alla ricerca di “roba buona, roba bella”. Gli interessa il sesso per un senso di rivalsa, di superamento dei propri limiti oggettivi».

Un altro giovane tirato in ballo nelle indagini del massacro del Circeo è Giampietro Parboni Arquati. Coetaneo di Izzo, figlio di uno dei più noti architetti della Capitale, anche lui era stato più volte segnalato alle autorità per le violenze perpetrate dai pariolini neri. Anche nei fatti del Circeo svolge a ogni modo un ruolo chiave: è lui quel «Carlo» che offre un passaggio alla Colasanti e a un’altra ragazza di nome Nadia davanti al cinema Empire il 25 settembre 1975; è sempre lui a presentare alle ragazze Izzo e Guido (anche loro sotto falso nome) in un locale dell’EUR il sabato seguente. Non partecipa al fatidico incontro di lunedì 29, quando la Colasanti e la Lopez vengono condotte nella villa di Punta Rossa. Accusato inizialmente di favoreggiamento, ratto a fine di libidine e sostituzione di persona, Parboni Arquati viene scarcerato per decorrenza dei termini nell’aprile del 1976, uscendo definitivamente di scena.

Il terzo personaggio è un altro ex studente del San Leone Magno, Gianluca Sonnino, anche lui accusato inizialmente di favoreggiamento (e poi prosciolto) in relazione ai fatti del Circeo: stando alle prime indagini, Izzo e Guido si rivolsero proprio a lui per aiutarli a occultare i corpi delle due ragazze; aiuto non materializzatosi solo grazie al casuale intervento delle forze dell’ordine in via Pola. Su Sonnino scrive così L’unità il 2 ottobre 1975: «Vent’anni, stesso ambiente, quasi stesso indirizzo degli altri suoi amici su cui indaga la polizia. Gli procurò una certa celebrità il fatto di girare, a soli diciotto anni, a bordo di una Jaguar, ma altra gliene venne appunto dalla squallida impresa di Monteporzio a cui prese parte con Izzo e Parboni. Ma anche per lui, come per gli altri due, le porte del carcere si spalancarono presto».

«UNA INSENSIBILITÀ CHE LASCIA SGOMENTI»

Angelo Izzo durante l’arresto del 1975

Izzo, Parboni Arquati e Sonnino, dunque. Fino ai primi di ottobre del 1975 questi tre nomi non avevano trovato spazio nelle cronache nazionali pure essendosi resi protagonisti di due casi tristemente analoghi alla tragedia del Circeo. Si tratta di due episodi di violenza carnale, risalenti al 1974, ai danni di due ragazze all’epoca dei fatti ancora minorenni. Due storie rimaste senza particolare eco mediatico, almeno fino all’anno seguente, nonostante si sia giunti a un processo e addirittura a delle condanne. D’altronde non era raro che fatti di cronaca concernenti le violenze sulle donne trovassero poco spazio sugli organi di stampa. L’attenzione sul fenomeno era ancora piuttosto limitata, tanto che per il movimento femminista la tragedia che travolge la Lopez e la Colasanti rappresenta un momento cruciale per il grande impatto mediatico riscontrato sull’opinione pubblica.

Il primo episodio che vede protagonisti Izzo e compagni risale al 2 marzo 1974. Ecco una sommaria ricostruzione dell’accaduto riportata sul Corriere della Sera nel gennaio 1977: «I tre sono accusati di aver costretto alla congiunzione carnale la minorenne A.M.B.; con l’inganno, le fecero credere che si sarebbero diretti in una discoteca e invece una volta in macchina raggiunsero Monteporzio Catone, una villa isolata, dove tutti e tre abusarono della ragazza».

Le dinamiche sembrano identiche a quelle ripetutesi nel settembre dell’anno seguente: la scusa di una festa, una villa isolata, le violenze a sfondo sessuale. Per i fatti di Monteporzio Catone Izzo, Parboni Arquati e Sonnino vengono denunciati solamente per lesioni aggravate e lasciati in libertà provvisoria in quanto dagli interrogatori susseguitisi agli arresti non emergono prove sufficienti in merito all’accusa di «ratto a fine di libidine» o, più appropriatamente, di stupro. Ma nel novembre dello stesso anno il terzetto riesce a ripetersi. Riprendendo il già citato articolo del Corriere del 1977: «Stessa scena otto mesi più tardi. Il 5 novembre Izzo e compagni “convinsero” sotto la minaccia di una pistola E.C., anche lei minorenne, a seguirli in un appartamento disabitato. La tecnica usata è sempre la stessa: stavolta le avevano detto che l’avrebbero condotta in casa di un’amica comune».

A quel punto per i tre pariolini scattano di nuovo le manette. Seppur avvenuti in contesti e momenti diversi, i familiari di Anna Maria B. si associano alle denunce avanzate da Elisa C. aprendo così finalmente la strada a un unico processo celebratosi in Corte d’Assise nel maggio del 1975. Questa volta però Izzo, Parboni Arquati e Sonnino non sfuggono alle accuse di violenza carnale e le versioni delle due minorenni vengono accolte senza riserve dal Tribunale di Roma che riconosce nei tre imputati una spiccata pericolosità sociale, evidenziandone testualmente «una insensibilità che lascia sgomenti». Tuttavia nella sentenza, emessa «a forfait» per dirla come il già citato giornalista Giovanni Di Dio, vengono comminate pene piuttosto lievi: due anni e sei mesi di reclusione. Non solo: dopo sei mei di carcere, trascorsi in attesa di giudizio, Izzo, Parboni Arquati e Sonnino tornano in libertà. Alla lieve condanna segue infatti la sospensione della pena. Appena cinque mesi dopo, in seguito ai gravi fatti del Circeo, le motivazioni di questa sentenza faranno molto discutere.

SQUADRISTI DAL «FAUSTO AVVENIRE»

Un ritaglio de L’Unità del 15 novembre 1975

Come è noto, fin dalle prime battute la vicenda del Circeo assume una dimensione politica. D’altronde i protagonisti sono da copione: da una parte ci sono i figli dell’alta borghesia romana, vicini agli ambienti dell’estrema destra, con alle spalle grandi risorse finanziarie e conoscenze piuttosto influenti; dall’altra ci sono due malcapitate ragazze provenienti dalle borgate. Il privilegio della gioventù dorata contrapposto a una ingenua illusione di salire di rango. Alla questione classista si aggiunge quella di genere, intorno alla quale insorge il movimento femminista romano che per mesi scende in piazza in solidarietà con Donatella Colasanti e i familiari di Rosaria Lopez. Di fronte alle violenze perpetrate da Izzo, Guido e Andrea Ghira quella discutibile sentenza di sei mesi prima viene messa sotto i riflettori: si poteva evitare il massacro? Sulla base di quali ragioni il tribunale di Roma concesse la libertà ai tre seviziatori di due minorenni?

Come riporta L’Unità in un articolo pubblicato il 5 ottobre 1975: «Per quel giudice la prognosi sul loro futuro di cittadini deve essere valutata come “fausta”. Il denaro, il lusso, le macchine e le ville autorizzano alla fiducia. Non conta che proprio nell’ozio e nella noia di questa vita dorata maturino le aggressioni squadristiche, la torpida abitudine alla violenza sui “diversi”, il disprezzo verso gli esclusi dalla propria casta reputata superiore».

Una clemenza che costa caro, soprattutto se si considera che Andrea Ghira, contemporaneamente condannato per la succitata rapina di via Panama, viene scarcerato solo dieci giorni prima quel fatidico 29 settembre. Per molti si tratterà di una svista giudiziaria clamorosa, per altri qualcosa di più. Nei giorni che seguono i fatti del Circeo, viene anche aperta un’inchiesta dal procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Walter Del Giudice, mirante a riesaminare i fascicoli del processo sui due casi di violenza carnale. Quel che emerse fu la grande pressione esercitata dai familiari degli imputati, almeno secondo quanto riportato ancora da L’Unità nell’edizione del 6 ottobre 1975:

«All’epoca in cui si istruiva il processo a carico di Izzo e gli altri, per i due episodi di violenza carnale, gli inquirenti ricevettero, in un vero e proprio pellegrinaggio, la visita di diversi magistrati di Cassazione. Tutti si facevano premura di vantare le qualità, o meglio presunte tali, degli imputati per concludere con una sollecitazione a che il processo si concludesse al più presto con il ritorno in libertà degli arrestati. La cosa era diventata ossessionante».

Il quotidiano comunista arriva persino a ipotizzare una certa noncuranza di un magistrato che, sotto tali pressioni, avrebbe ignorato il fascicolo di detto processo, considerandolo non più di sua competenza. Il caso sulle negligenze del Tribunale di Roma approda pure in Senato, tanto che nel corso di un’interrogazione condotta dal Partito Comunista il sottosegretario alla Giustizia, il democristiano Renato Dell’Andro, arriva ad ammettere l’errore giudiziario, affermando che «pur non risultando comportamenti illeciti da parte dei magistrati in questione resta il discorso politico sulla sufficienza degli elementi posti a sostegno delle decisioni prese».

Non viene preso nessun provvedimento disciplinare in seguito all’inchiesta e si arriva così a celebrare il tanto atteso processo d’Appello, conclusosi il 24 gennaio 1977. In un’aula gremita di decine di donne appartenenti al movimento femminista, i legali di Angelo Izzo, già condannato all’ergastolo per il Circeo l’anno precedente, provano a giocare la carta dell’infermità mentale, prontamente respinta dalla Corte. I difensori dei tre imputati provano vanamente a eliminare dal processo gli avvocati di parte civile, «sostenendo», come riporta il Corriere della Sera del 25 gennaio 1977, «che per quanto riguardava il risarcimento dei danni alle vittime non vi erano problemi, in quanto la somma stabilita nel processo era stata regolarmente depositata. Si tratta di sei milioni di lire».

La Corte d’Appello conferma le condanne comminate in primo grado e anche per Sonnino e Parboni Arquati si riaprono le porte del carcere. Una giustizia che per buona parte dell’opinione pubblica giunge troppo tardivamente. La risposta delle femministe non si fa attendere. Questo uno stralcio del loro comunicato diramato in quei giorni: «La stessa giustizia che rimette in libertà Izzo e camerati in quanto “bravi ragazzi” e figli di papà, tratta le donne in ogni processo per violenza carnale da imputate e non da accusatrici, sottoponendole ad interrogatori, visite ginecologiche e confronti umilianti».

Non mancano ovviamente reazioni sull’altro versante di segno politico opposto. Molto singolare appare il tentativo di Michele Marchio, deputato del MSI, di gettare un po’ di fumo sulla vicenda processuale dei tre ragazzi. Marchio si espresse in merito a un interessamento del senatore comunista Giuseppe Branca per la scarcerazione del giovane Parboni Arquati, facendo riferimento a una stretta amicizia fra il senatore e il padre dell’imputato, nonché a presunte simpatie (successivamente sconfessate) di quest’ultimo per il Partito Comunista. «Menzogne missine», è la risposta de L’Unità mentre lo stesso Branca pubblicamente si dichiara del tutto estraneo alla vicenda.

«CON LEI ABBIAMO FATTO COME AL CIRCEO»

Un’immagine recente di Angelo Izzo

Cinque mesi, dunque, intercorrono tra la discussa sentenza di primo grado del maggio 1975 e i fatti del Circeo. Cinque mesi in cui un criminale disturbato e pericoloso come Angelo Izzo potrebbe aver commesso altri reati. A porre questo dubbio non è stata la stampa, gli psicologi o i criminologi, no: è stato lo stesso Izzo. Alla fine del 2016, infatti, alcune sue dichiarazioni sembrano riaprire un caso avvolto nel mistero da più di quarant’anni: la sparizione della diciassettenne friulana Rossella Corazzin, scomparsa il 21 agosto del 1975. Non nuovo a confessioni clamorose e spesso ritenute infondate, in una lettera indirizzata ai PM di Belluno, si autoaccusa del sequestro e stupro della ragazza, dichiarandosi però estraneo all’omicidio e all’occultamento del cadavere. «Voglio solo togliermi un peso dalla coscienza» dirà attraverso il suo legale. La ricostruzione dei fatti fornita da Izzo apre uno scenario agghiacciante intorno alla tragica scomparsa della Corazzin:

«Volevamo una vergine. La ragazza», ha riferito Izzo ai giudici secondo quanto riportato da Fanpage il 5 luglio 2019, «venne vestita di una tunica bianca e messa su un tavolo. Gli uomini erano vestiti tipo ordini cavallereschi e fecero una sorta di giuramento di sangue. Poi a turno stuprarono questa giovane, che era cosciente di quello che le stava succedendo. Sembrava che fosse inerme, del resto era prigioniera da venti giorni».

Fantasia? Megalomania? Izzo ricostruisce dinamiche e tempistiche che sembrano avvicinarsi al vero. Tira in ballo altre undici persone, tra cui il già sospettato Francesco Narducci, coinvolto anche nella vicenda del Mostro di Firenze e morto in circostanze sospette nel 1985 sul lago Trasimeno. Izzo parla anche del coinvolgimento di Gianni Guido: potrebbe essere lui quel «Gianni», studente universitario a Perugia, citato più volte dalla Corazzin in alcune lettere indirizzate a un’amica. Sul presunto coinvolgimento di Guido, che ha sempre negato ogni addebito, non si hanno mai avuto seri riscontri. Infine il mostro del Circeo chiama in causa anche Giampietro Parboni Arquati. Di quest’ultimo, probabilmente trasferitosi in Svizzera negli ultimi due decenni, non si hanno più tracce da moltissimo tempo, tanto che nel 2019 il Corriere delle Alpi dirama la notizia del suo presunto decesso, sopraggiunto in terra elvetica nel 2014.

«Con lei abbiamo fatto come al Circeo» dichiara Izzo nel corso di un’udienza preliminare a Perugia. Stando sempre alla sua versione, la ragazza sarebbe stata avvicinata nei boschi di Cadore, nel bellunese, e stordita o drogata sarebbe stata condotta in una villa sul Trasimeno, in Umbria, di proprietà del già citato Narducci, dove dopo venti giorni di violenze sarebbe stata uccisa e sepolta in un luogo rimasto sconosciuto. Nonostante lo stesso legale di Izzo lo abbia ritenuto credibile e lucido, il gip di Perugia bollerà come infondate le sue dichiarazioni. Il caso sulla scomparsa della Corazzin viene definitivamente archiviato nel dicembre del 2019. E, forse, ancora una volta qualche «signorino» della Roma-bene è riuscito a farla franca.