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L’attentato a Giovanni Paolo II. E se la verità fosse da cercare in Turchia?

Tommaso Nelli

Più che nei complotti, la chiave per interpretare uno dei gesti criminali più eclatanti del Novecento può essere trovata proprio nella personalità paranoica di Alì Ağca

E se per la soluzione del mistero sull’attentato al Papa si dovesse innanzitutto cercare in Turchia? È una delle domande che pone il libro Attacco al Papa (Koinè Edizioni, 2017) del professor Giuseppe Consolo, docente di Istituzioni di Diritto Pubblico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università “Luiss” di Roma, ma soprattutto avvocato di Sergeij Antonov. Cioè il principale accusato degli spari a Giovanni Paolo II, simbolo della “pista bulgara”, vittima di un accanimento giudiziario, tra detenzione preventiva e processo, sebbene fosse evidente fin da subito la sua estraneità ai fatti.

Un’innocenza immediatamente chiara dal primo interrogatorio anche al suo legale, che scrive: «È smarrito e spaesato, non dimostra di aver capito bene in che guaio è finito, non si è precostituito alcun alibi. […] Questa impressione è poi confermata nella fase in cui deve spiegare dove si trovasse al momento dell’attentato. […] Non ci vuole molta immaginazione per ipotizzare che uno 007 avrebbe risposto senza esitazione, tanto più che, dal giorno dell’attentato al Papa a quello del suo arresto, era passato più di un anno e mezzo. […] Invece il mio assistito balbetta, non ricorda, farfuglia cose insignificanti». Ma un quadro del genere motiva ancor di più Consolo nella sua azione di difesa, accettata su esplicita richiesta della diplomazia bulgara nonostante la giovane età, trentaquattro anni, e una diffusa quanto trasversale ostilità negli ambienti a lui più cari. Umani e professionali. «Mio suocero mi disse che trovava sbagliato che io avessi come cliente coloro che avevano cacciato il re Simeone di Bulgaria, cugino, per l’appunto, di mio suocero e, quindi, di mia moglie […] Il mio amico e cliente Clelio Darida, che ricopriva la carica di Ministro Guardasigilli, mi disse: “Se tu continuassi a difendere i bulgari, non potrei più averti come avvocato”». Coadiuvato dall’amico e collega Alfredo Larussa, esperto di diritto penale in virtù dei suoi trascorsi in magistratura, Consolo, sia in istruttoria che in dibattimento, dimostra l’evidente inconsistenza di quelle imputazioni, centrando la tanto attesa vittoria con l’assoluzione, sia in primo che in secondo grado, dei suoi clienti (oltre Antonov anche gli altri due bulgari alla sbarra, Jelio Vassilev e Todor Ayvazov, processati in contumacia perché rimasti in Bulgaria).

RIPARTIRE DALL’ABC DELL’INVESTIGAZIONE

Una vecchia immagine di Mehmet Ali Ağca

Le pagine della sua opera non ripercorrono però esclusivamente un successo che vale una carriera, quanto si soffermano su altri aspetti della vicenda. A cominciare dal più importante: chi armò la mano di Mehmet Alì Ağca? Preso atto che la “pista bulgara” fu un depistaggio, precipitato nel dimenticatoio dopo la caduta del Muro di Berlino, evaporato con la smentita dello stesso Giovanni Paolo II, dove bisogna cercare la verità su uno dei gesti criminali più eclatanti del Novecento? Per scoprirla, secondo l’autore, occorre innanzitutto rovesciare l’approccio nei confronti di quanto accaduto. Non affannarsi cioè a ricercare il complotto, la regia congegnatrice dell’eliminazione del capo della Chiesa cattolica, per poi verificarne la compatibilità con un personaggio come Ağca, quanto partire proprio da quest’ultimo per risalire «alle circostanze e alle complicità» che lo aiutarono in quella follia. Cioè il contesto e le persone nella quale maturò. In poche parole, dobbiamo sostituire il razionalismo all’empirismo e partire dal basso, ovvero dalla vittima o dall’autore di un gesto criminoso, in nome di una metodologia operativa corrispondente all’abc dell’investigazione e condivisa anche da chi scrive nel suo libro-inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.

Nel caso dei colpi di pistola contro il Santo Padre, fortunatamente, non ci sono stati cadaveri. E sempre la buona sorte permette di conoscere il nome di chi li ha esplosi. Esistono quindi le condizioni ideali per individuare cause e mandanti. «È Alì Ağca la fonte originaria del dramma. La verità è nella sua personalità paranoica, nel suo ambiente dell’Anatolia profonda, nel come sia riuscito ad acquisire una posizione di rilievo all’interno dei Lupi Grigi, nel come un individuo criminale e pazzoide abbia potuto trovare appoggi e protezioni nella sua pretesa di entrare nella storia sparando contro il Pontefice di Santa Romana Chiesa», fa notare Consolo che reputa indispensabile ricostruire la storia del turco dalla sua pilotata evasione dal carcere di Kartal-Maltepe (25 novembre 1979) fino al 13 maggio 1981. Diciotto mesi per i quali si devono trovare più risposte a più domande. «Che cosa è successo per tutto questo tempo? Che cosa, l’assassino di İpekçi (il giornalista turco ucciso da Ağca e per il quale era stato arrestato), ha proposto ai suoi amici? Chi lo ha protetto e foraggiato? E perché?». Interrogativi che si aggiungono ad altri, da noi sollevati nel corso di questa inchiesta. Chi finanziò i suoi viaggi tra Medio Oriente, Europa e Nord Africa? Con chi Ağca mette a punto l’insano gesto? Perché il turco viene a più riprese in Italia, iscrivendosi addirittura all’università per stranieri di Perugia?

IL RUOLO DEI «LUPI GRIGI»

Al di là dei racconti della stessa sfinge di Malatya ai nostri giudici – molteplici sia nella forma che nella sostanza al punto da decretarne una sua conclamata inattendibilità – e dell’accertamento di una serie di suoi spostamenti al di qua e al di là della “cortina di ferro”, noi non sappiamo ancora con chi il killer musulmano si incontrò effettivamente e i veri motivi delle sue trasferte. Come non sappiamo, riguardo ai giorni precedenti all’attentato, chi incontrò, chi prenotò per lui la camera all’hotel “Isa” di via Cicerone e chi lo accompagnò a una messa di Wojtyla nella chiesa di S. Tommaso D’Aquino.

Fra le poche certezze acquisite dagli inquirenti, la sua frequentazione dei Lupi Grigi, l’organizzazione politica e paramilitare turca di estrema destra – braccio armato del Partito del Movimento Nazionalista di Alparslan Türkeş – espulsa dalla Turchia dopo il golpe militare del generale Kenan Evren del settembre 1980. Per il difensore di Antonov, un’altra realtà da indagare a fondo. «Chi sono realmente i Lupi Grigi? Che tipo di organizzazione è? E perché sono in contatto con polizie e Servizi dei Paesi europei in cui si installano?». Fra questi ultimi ci sono soprattutto i servizi segreti dell’allora Germania Federale dove i Lupi Grigi avevano aperto diverse sedi a seguito della loro diaspora. Basti pensare che un altro degli imputati del processo, Musa Serdar Çelebi, era il presidente della Federazione degli Idealisti Turchi di Francoforte sul Meno, destinataria di più telefonate da parte di Ağca durante i suoi peregrinaggi europei. Ma non mancano anche rapporti dei Lupi Grigi con gli Stati Uniti, tanto che nei loro covi sarà rinvenuto il biglietto da visita del capostazione CIA ad Ankara, Paul Henze. Un particolare che rende molto più probabile una loro subalternità all’Occidente che al comunismo. «Come farebbero del resto a sopravvivere», si domanda Consolo, «in territorio Nato dopo essere stati “espulsi” da un altro paese Nato, la Turchia?».

Proprio sul comportamento dei servizi segreti e sul depistaggio che si innesca all’indomani dell’attentato si concentrano altre riflessioni del senatore (eletto tra le file di Alleanza Nazionale alle elezioni politiche del 2001). Come faceva Ağca a essere ben informato su dettagli o particolari dei bulgari quando poi sbagliava il resoconto di informazioni più globali? Non mancano poi riferimenti a episodi specifici più che sospetti, come il sopralluogo a via Galiani, alle 4 del mattino di uno dei primi giorni di gennaio del 1983, per verificare il riconoscimento da parte di Ağca della palazzina residenza di alcuni funzionari bulgari dove diceva di essere stato per mettere a punto l’attentato. «È palesemente smarrito. Si aggira per via Galiani senza indicarci il portone della casa di Ayvazov. A un certo punto, noto due tizi che stanno fermi poco più in là. Il turco li sta guardando. Sento immediatamente puzza di bruciato. Faccio un mezzo giro in avanti. E mi piazzo in mezzo alla visuale di Ağca. Cosicché, se quegli sconosciuti fanno il minimo gesto rivolto al testimone, sono in grado di accorgermene subito e di segnalarlo al giudice istruttore».

UNA CORTINA FUMOGENA SEMPRE PIÙ IMPENETRABILE

Scorrendo le pagine del libro ci si sofferma anche sul ruolo della nostra intelligence, al centro di accesi confronti con lo stesso Consolo quando i suoi vertici del tempo si presentano in aula a deporre. Tra i motivi della contesa, i colloqui tra Ağca e gli 007 Luigi Bonagura e Alessandro Petruccelli nel carcere di Ascoli Piceno. Secondo la versione ufficiale ci sarebbe stato soltanto quello del 29 dicembre 1981. Sennonché un appunto della Digos del 31 agosto 1982 «parla di “colloqui” e non di “colloquio” […]. Ciò fa intendere che d’incontri ce n’è stato più di uno». Al che l’allora capo del SISDE, Emanuele De Francesco, se ne esce con un: «”Io sto parlando sotto giuramento. E le confermo che il colloquio è stato uno solo, il 29 dicembre. Sarà durato alcune ore: io non so quante ore è durato, se si è svolto in diversi tempi, perché questi sono particolari che affiorano ora. E io non ho avuto occasione per chiederlo ai due che sono andati ad Ascoli Piceno”. Il capo del Sisde non chiede lumi, su certi “particolari”, al suo funzionario? Molto strano». Copione molto simile quando è il turno del numero uno del SISMI, il generale Ninetto Lugaresi. «Anche qui è il solito gioco allo scaricabarile. Sulle “promesse” fatte al detenuto dai due agenti, dice che il maggiore Petruccelli non doveva neanche essere autorizzato “perché nessuno pensava una cosa del genere!”. Che ha fatto l’ufficiale, ha agito di sua iniziativa?».

Dal quadro nazionale a quello internazionale. Cioè al depistaggio iniziato dopo l’attentato con la “pista bulgara”, alla quale non credevano nemmeno gli stessi Stati Uniti – «La Direzione Generale della Cia redige nel 1983 una nota nella quale […] si sottolinea che lo stile nell’azione contro Giovanni Paolo II non era tipico delle operazioni bulgare e sovietiche» – e che induce a chiedersi anche perché venga messa subito in atto una macchinazione così oliata e sofisticata. Che cosa c’era da proteggere? O chi c’era da colpire?

Il cui prodest di latina memoria tiene banco in tutto il libro ed è un interrogativo ancora d’attualità. E se il lavoro del professor Consolo non è ovviamente la verità sull’attentato al Papa, merita comunque attenzione perché propone un versante razionale e mai esplorato a sufficienza su dove ricercarla. Quarant’anni dopo, il ferimento di Giovanni Paolo II continua a essere preda di una cortina fumogena che il tempo e le menzogne, come la “pista bulgara”, hanno reso sempre più impenetrabile. Per noi che ne scriviamo, e che qui concludiamo la nostra indagine sui suoi aspetti più oscuri fatto salvo entrare in possesso di nuovo e interessante materiale, rimangono aperti i pesanti e inquietanti interrogativi sulla mancata collaborazione fin dal primo momento, come raccontato con l’episodio del proiettile, da parte dell’organismo maggiormente interessato a sapere tutto su quel drammatico pomeriggio a piazza San Pietro: le alte gerarchie vaticane. Come diceva Eraclito: «Non troverai mai la verità, se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspettavi di trovare».