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Da Nada Cella a Emanuela Orlandi: quando si trascura il luogo del misfatto

Tommaso Nelli

Sostenere che gli ultimi attimi di Emanuela non siano importanti, sminuirli se non addirittura negarli, equivale a non voler far tesoro degli errori del passato

Aver affrontato di recente il caso di Nada Cella ci consente di riprendere quello di Emanuela Orlandi, ritornato alla ribalta mediatica nazionale nei giorni scorsi. Tra i due il passo è ancor più breve di quanto possano far pensare la distanza geografica (450 km) e il divario temporale (tredici anni). Perché il tema della scomparsa della cittadina vaticana, come quello dell’omicidio della segretaria ligure, è caratterizzato da evidenti trascuratezze investigative riguardanti il luogo dell’accaduto. E come per il delitto di Chiavari, pure tra i documenti della maxi-inchiesta giudiziaria sulla scomparsa della giovane flautista si annidano le informazioni utili per imboccare la strada che consentirebbe di arrivare alla verità. Anche dopo quasi quarant’anni.

UNA FIGURA CENTRALE NELLA RISOLUZIONE DELL’ENIGMA

Emanuela Orlandi

Per i nuovi lettori della vicenda giova premettere che di Emanuela Orlandi se ne persero le tracce il 22 giugno 1983, dopo le 7 di sera, nel centro storico di Roma, su corso Rinascimento, a una fermata dell’autobus al tempo situata di fronte al Senato della Repubblica. Lei era uscita da poco dalle lezioni di musica della scuola “T. L. Da Victoria”, che si trovava nella vicina piazza S. Apollinare. E proprio da quei trecento metri bisogna partire per capire come andarono le cose.

In primis, come già scritto in altri articoli, occorre identificare l’ultima persona insieme a Emanuela fino a pochi attimi prima che sparisse. Un’allieva dell’istituto nota alla famiglia fin da quella sera, tanto che la mise a verbale nella denuncia di scomparsa presentata l’indomani da Natalina Orlandi: “Dalla mia abitazione mia sorella Federica ha telefonato a un’altra compagna di scuola di Emanuela, Casini Maria Grazia, la quale ha riferito di aver lasciato mia sorella alla predetta fermata dell’autobus in compagnia di altra coetanea della quale non si conosce il nome”. L’importanza di questa figura è centrale nello scioglimento dell’enigma. Perché lei vide dove Emanuela si diresse. Se era da sola o se seguì qualcuno. E nell’eventualità com’era fatto questo “qualcuno”, se fosse a piedi o a bordo di un veicolo.

Incomprensibile non averle mai dato un nome. Ancor di più se – come rivelato inedito nel libro Atto di Dolore – si scopre che ci era riuscita la direttrice della “Da Victoria”, suor Dolores. Lo si apprende dalle parole di Maria Grazia Casini alla Squadra Mobile di Roma il 22 luglio 1983: “Suor Dolores, a seguito della descrizione della ragazza che si trovava in compagnia di Emanuela Orlandi alla fermata, è riuscita a identificarla e interpellarla. Se ben ricordo questa ragazza, della quale mi sono dimenticata il nome, avrebbe riferito alla suora, che dopo che io e i miei amici siamo saliti sull’autobus, la stessa, in compagnia di Emanuela, si erano avviate a piedi fino a corso Vittorio, punto in cui si sarebbero divise, andando ognuna per proprio conto. […]. Quando suor Dolores ha interpellato questa ragazza, ero presente anch’io”.

RICORDI DIVERGENTI

Com’è possibile che una reverenda riesca dove invece “dovrebbero” le forze inquirenti? E perché queste non le chiesero subito qualcosa invece di attendere due anni per richiamarla (24 aprile 1985) senza però (altro errore) ritornare sul punto?

Ma questa non è che la prima anomalia di quella sera. Proseguendo la disamina degli atti, ecco un passo della relazione della Squadra Mobile del 27 giugno 1983. Erano trascorsi appena cinque giorni dalla scomparsa di Emanuela e la polizia aveva chiesto informazioni ad alcune studentesse della “Da Victoria”. Tre di loro dissero che all’uscita da scuola l’avevano “notata ferma in corso Rinascimento davanti alla fermata del 70 in direzione di corso Vittorio”. Questa ricostruzione però contrasta con le singole deposizioni poi rilasciate da due di esse (coerenti i racconti della terza, Casini). Una, Sabrina Calitti, ascoltata dalla Digos il 29 luglio 1983, affermò: “l’ultima occasione in cui ho visto Emanuela è stato quando ci siamo salutate sul portone di scuola”. Perché poco dopo “passando avanti alla fermata dei mezzi pubblici di corso Rinascimento – ubicata poco prima del Senato – ho visto che vi erano alcune ragazze della scuola di musica, che io conosco di vista, non ho notato però Emanuela. Di questo sono sicura”.

L’altra, Laura Casagrande, il 4 agosto 1983 disse ai Carabinieri che l’aveva lasciata su piazza S. Apollinare (sede della “Da Victoria”): “Scendendo le scale della scuola l’Emanuela era dietro di me per cui giunta al cortile l’ho salutata ed aspettato, anche se andavo di fretta, tutto il gruppo. Quando ci siamo riuniti, nel cortile esterno della scuola, ho deciso di avviarmi verso la mia abitazione in compagnia della mia amica Maria Teresa P. Durante il tratto di corso Rinascimento che ho percorso a piedi, mi sono girata diverse volte per controllare se il gruppo si era mosso. Durante tali controlli ho appurato che Emanuela era circa venti metri più indietro a me e che più indietro venivano tutti gli altri. Arrivata quasi alla fine di corso Rinascimento mi sono di nuovo girata vedendo solo gli amici mentre Emanuela non vi era più”.

Quindi entrambe non avrebbero visto per l’ultima volta Emanuela ferma di fronte al Senato, ma davanti all’ingresso della scuola di musica e, almeno per quanto concerne la Casagrande, in movimento alle sue spalle su corso Rinascimento. Beninteso. Alla base dei loro ricordi divergenti potrebbero aver concorso la giovanissima età al tempo e il mese intercorso tra le loro rispettive testimonianze. Nel 2008 furono nuovamente ascoltate durante la seconda inchiesta della Procura di Roma, ma senza successo. Casagrande addirittura disse che non era stata lei ad andarsene per prima – “Al termine della lezione Emanuela, anziché trattenersi a scambiare qualche saluto come al solito, andò via” – salvo poi specificare: “Prendo atto delle dichiarazioni rese da me il 4 agosto 1983, diverse da quelle rese in data odierna. Dato il tempo trascorso l’unico ricordo rimasto è quello riportato oggi anche se certamente all’epoca dei fatti, essendo i ricordi più vivi, sono stata più precisa”.

L’IDENTITÀ DI “FEDERICA”

Se è comprensibile il trascorrere del tempo per ognuno di noi, è innegabile che quelle contraddizioni andavano, e andrebbero, risolte per capire dove le due videro Emanuela per l’ultima volta. Un particolare non certo irrilevante almeno per due ragioni. La prima è che l’ultimo flash di una persona che poi scompare dovrebbe rimanere impresso nella mente di un testimone involontario proprio per la portata emotiva dell’evento che ne consegue. Il secondo è che, se entrambe notarono Orlandi alla fermata, si potrebbero ricavare eventuali altri nomi di persone della scuola oltre quelli (pochi) già agli atti. Diversamente, si restringerebbe il cerchio dei presenti. In ogni caso, acquisiremmo nuovi tasselli per comporre il mosaico di quei minuti fatali su corso Rinascimento.

Dove i fatti andarono in un modo solo. E per scoprirlo, occorre soffiar via ogni nube. Come l’identità di “Federica”, un’altra studentessa della “Da Victoria” della quale, altro mistero, non si conosce il cognome. Ci sarebbe stata anche lei ad aspettare l’autobus insieme a Emanuela Orlandi. Lo si apprende dalla deposizione, nella seconda metà del luglio 1983, alla Squadra Mobile di un altro studente dell’istituto, Antonio Vignera: “Ho parlato anche con tale Federica, che frequenta con Emanuela la scuola di musica. […] Mi ha riferito che il pomeriggio del 22 giugno, uscita di scuola, si era avviata verso la fermata ATAC di corso Rinascimento, quasi di fronte al Senato. […] Giunta all’altezza della tipografia del giornale ‘Il Popolo’ (al tempo ubicato in piazza delle Cinque Lune, di fronte a piazza S. Apollinare, ndg) aveva raggiunto Emanuela. Insieme avevano percorso il breve tratto di strada fino alla fermata. Mi pare di ricordare che insieme alla Federica vi fosse anche Casini M. Grazia, così mi sembra che mi ha detto Federica. Erano rimaste in attesa alla fermata e, successivamente, lei e Maria Grazia avevano preso l’autobus 70, diretto verso il centro, mentre la Emanuela era rimasta in attesa alla fermata stessa”.

GLI INTERROGATIVI E LE MANCATE RISPOSTE

Chi era questa “Federica”? Che vide quella sera? Perché non è mai stata individuata? E come mai di lei non hanno mai chiesto niente a Casini?

Chi scrive, ha consultato alcuni programmi dei saggi della “Da Victoria” tra il 1981 e il 1985 e ha parlato con oltre centocinquanta persone tra ex allievi ed ex insegnanti. Tranne una, del tutto estranea alla vicenda perché non conosceva Emanuela visto che seguiva altri corsi, non c’era nessuna “Federica” e nessuno ricorda un’allieva con questo nome. Doveroso comunque tener presente che in una scuola con diverse centinaia di iscritti, dove le lezioni erano perlopiù individuali, era normale che molti di loro si conoscessero soltanto di vista e non per nome. Però questa “Federica” avvalora l’ipotesi, riscontrata anche da altre mie ricerche, che a quella fermata dell’autobus vi fossero pure studenti della “Da Victoria” dei quali però non abbiamo testimonianze ufficiali. E anche qui: perché?

Se si vuol sapere che accadde a Emanuela Orlandi, devono fiorire risposte da questi interrogativi. Perché collegati con i suoi ultimi momenti e con il luogo dove il mistero ebbe inizio. Desta molta perplessità la loro sopravvivenza in tutti questi anni, la loro mancata contemplazione per chiedere una riapertura delle indagini e la loro assenza nelle opposizioni all’archiviazione del 2015 e nel ricorso alla Corte di Cassazione del 2016. Circostanze, queste ultime, che hanno privilegiato conclamate fantasie come la pista del ricatto internazionale, andando incontro a inevitabili respingimenti.

Sostenere invece che gli ultimi attimi di Emanuela non siano importanti, sminuirli se non addirittura negarli, equivale a non voler far tesoro degli errori del passato e, di fatto, a voltare le spalle alla verità sul suo conto. Perché anche per lei, come per Nada Cella, la soluzione passa attraverso il cosmo del tangibile e della semplicità. Cioè dal basso, da dove tutto cominciò. Dopo averlo definito, la scoperta di “cosa” e “perché” sia successo e di chi sia stato, sarà un effetto domino. Un’inevitabile conseguenza.