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«L’Europa? Siamo sfruttati, ma non torneremo indietro». Viaggio tra i migranti della stazione Termini (1980)

Redazione Spazio70

Da un articolo di «Lotta continua» (1980)

L’immigrazione della gente di colore in Italia è praticamente raddoppiata rispetto agli anni precedenti. Roma, Trapani, Napoli, Palermo e Siracusa, ma soprattutto la capitale, sono le città più frequentate: il lavoro nero è più accessibile, soprattutto quello manuale, nel Sud. Roma è invece più un centro di attrattiva, fa parte del «mito dell’Occidente», una meta per i giovani africani, quasi pari all’America per quelli europei.

La capitale inoltre offre possibilità di sopravvivenza diverse e alterne nel tempo. Roma è più eterogenea rispetto a una città industriale del Nord, meno razzista rispetto alle maggiori città europee. La gente di colore vive alla stazione Termini più che in altri quartieri romani, si organizza in gruppi della stessa nazionalità e difficilmente lega con gli italiani.

Le donne trovano lavoro più facilmente degli uomini, di solito prima di espatriare, attraverso le ambasciate. Vengono assunte a servizio, soprattutto nei quartieri alti, e percepiscono in media uno stipendio base di 150 mila lire al mese. La prostituzione femminile di colore è in pratica inesistente. Uomini e donne fanno della stazione anche un occasionale luogo di incontro, soprattutto il giovedì e la domenica che sono i giorni di riposo per le donne che lavorano a servizio.

Non è stato possibile parlare con le donne: sono praticamente inavvicinabili, meno che mai se accompagnate da uomini. A piazza Indipendenza dove, a quasi tutte le ore del giorno, si incontrano i sud-africani, un gruppo si è rifiutato di essere intervistato in presenza delle «proprie» donne. Successivamente si sono rifiutati di parlare anche solo gli uomini.

«IN ITALIA E A ROMA NON SI TROVA LAVORO»

Le poche notizie che siamo riusciti a sapere sono soprattutto statistiche: emigrano per cercare di fare soldi, la grande parte vive di espedienti, una grossa percentuale viene arrestata per furto e per spaccio di banconote o traveller cheque falsi. Di quest’ultima attività detengono il monopolio soprattutto i sud-africani.

Dal gennaio 1980 a oggi sono state espulse dall’Italia 450 persone di colore, per lo più perché prive di permesso di soggiorno. Non è possibile rapportare questo numero a quello delle entrate perché non esiste ancora una statistica in grado di fornirlo. Una grossa percentuale di immigrati somali ed eritrei lascia il proprio Paese per ragioni politiche e viene in Italia per lo più perché conoscono già la lingua. Alla loro condizione iniziale preferiscono il vagabondaggio, l’accattonaggio alla stazione e le luci della città.

Ogni gruppo ha una sua zona. Alla sinistra della stazione, nella zona più emarginata in via Marsala, stazionano perennemente molti somali. Accade spesso che la polizia faccia delle vere e proprie retate: molti, senza permesso di soggiorno, vengono rimpatriati, ma facilmente riescono a tornare o a non partire per niente. Un vigile urbano in servizio in quella zona ha detto: «Danno fastidio, sono sporchi, pisciano sulle automobili parcheggiate, così, per disprezzo, ma comunque il massimo che rubano è un panino al bar di fronte. Molte volte ne trovano qualcuno morto per fame o per freddo».

Abbiamo intervistato alcuni di questi ragazzi somali, li abbiamo svegliati mentre dormivano per terra su alcune grate dalle quali usciva aria calda e secca proveniente dai sotterranei della stazione.

«Io sono venuto qua in vacanza», dice uno di loro, «poi ho visto i miei fratelli che mi hanno offerto da bere, ho accettato e sto qua in vacanza da un mese, due mesi, poi tornerò in Somalia. Io non sono venuto qua per lavorare». Interviene un ragazzo giovanissimo: «Posso interrompere? In Italia, a Roma, non si trova lavoro. Uno che non ha residenza, si arrangia. Mangiamo e dormiamo lo stesso: sono due anni che stiamo qua e dormiamo qua. Una volta avevo trovato lavoro in un circo, è durato quatto mesi. Ci pagavano bene. Vedi? C’è una grata da dove viene tanto caldo. Anche quando viene la polizia e ci porta in questura, ci troviamo bene ma è finito. Adesso stiamo qua, mangiamo e dormiamo bene, perché prima l’Italia e la Somalia erano amiche. Ci trattano bene, ci sono alcuni che rubano, ma non sono somali».

«IL MAROCCO È UN INFERNO, NON C’È LIBERTÀ»

«A noi ci tengono un giorno per accertamenti, perché dormiamo qui alla stazione, ma poi ci lasciano andare». Un altro dice: «Io dormo qua perché non ho soldi per pagare la pensione, ho perso tutto». Un amico gli dice sottovoce, all’orecchio, in arabo: «Zitto, zitto», l’altro risponde: «Ma sono di Lotta Continua, non conosci Lotta Continua!» e prosegue: «Nessuno mi aiuta, sono costretto a dormire qua. Non ho il biglietto per tornare al mio paese. Sì, lo sappiamo che a piazza della Pace hanno dato fuoco a un somalo e tanti hanno detto che era per via del razzismo, ma noi pensiamo che poteva succedere anche a un italiano. Quando ti trovi di fronte a degli assassini… Questa cosa ci ha scosso parecchio, però a noi non può accadere perché qui siamo sempre in tanti».

Marocchini, tunisini, algerini costituiscono la fascia di immigrati più numerosa in Italia anche per la evidente facilità di accesso data la non eccessiva lontananza. Alla stazione Termini la maggioranza vive di elemosine e di ruberie, dormono nei sotterranei e nei giardinetti di fronte l’ingresso principale.

Un ragazzo marocchino ci parla dei suoi problemi in Italia: «Mi trovo in Italia da un anno, qui è più facile avere il soggiorno e poi gli italiani sono meno razzisti. La polizia fino allo scorso anno non ha fatto tanti problemi: ora invece è un po’ diverso, sono cominciate le difficoltà come in Francia e in Germania. Sono molti giorni che vado in questura per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, mi hanno dato solo una settimana nonostante un certificato medico che dice che sono malato di nervi e devo curarmi in Italia. Pensano di mandarmi via, ma io non voglio andare: ho sempre paura che la polizia mi fermi e trovi che non sono in regola e io non posso andare da nessun’altra parte. In Francia non posso: in Marocco tu non lo sai, ma è un inferno vivere lì. Gli italiani? Con loro è difficile fare amicizia, pensano che gli arabi sono sporchi, si tengono sempre lontani. Io non voglio tornare in Marocco, lì non c’è libertà, mi sono abituato alla vita europea e poi è tutto in mano ai francesi, agli americani, noi non abbiamo più ricchezza, non ci sono rimaste neanche le nostre tradizioni, il paese non è più nostro».

Un tunisino: «Ti dico solo questo: siamo trattati malissimo. Una volta non avevo moneta per fare il biglietto dell’autobus, volevo pagare la multa, ma mi hanno subito portato in questura all’ufficio stranieri. Mi hanno messo in una stanzetta piccola, mi hanno picchiato, altri cinque che erano lì con me avevano la faccia piena di sangue: erano aggrediti verbalmente. Gli dicevano: “Che cosa fai qui? Ora ti mandiamo via”. Ero terribilmente umiliato».

«L’EGITTO? MEGLIO ESSERE SFRUTTATI QUA CHE TORNARE LÀ»

Gli immigrati egiziani sono quelli che più facilmente riescono a trovare lavoro. Organizzano lavoro nero di gruppo e lo procurano anche ai connazionali. La situazione politica, il continuo stato di allarme del Paese rendono difficile espatriare dall’Egitto: è possibile per sole ragioni turistiche, bisogna avere degli agganci e il massimo che si ottiene è un permesso di trenta giorni all’estero. E’ chiaro che una volta che riescono a uscire non vogliono più tornare: da qui il morboso attaccamento al lavoro, anche se sottopagato e con tempi che superano le otto ore lavorative. Quando abbiamo provato a parlare con loro erano molto diffidenti. Parlavano molto bene del loro paese, ma avevano un tono provocatorio: «Ho fatto sei anni di guerra, non ne potevo più. Ragioni di lavoro non ne ho, in Egitto c’è tanto lavoro. Noi siamo gente pulita a cui piace lavorare. Qui la gente ci guarda sempre male perché ci confonde con gli arabi, ma il nostro Paese è bello, bellissimo, non abbiamo bisogno di nessuno».

Un altro un po’ più disponibile: «Il tempo libero non mi interessa, voglio solo lavorare. Sono partito perché ero stanco di quella guerra infame. Guarda, ho ancora le ferite della guerra dei sei giorni. Molti di noi sono andati via per questo motivo e adesso perché non vogliono fare il militare».

Un ragazzo molto giovane dice: «In Egitto il lavoro non c’è e tutti vogliono scappare per non morire di fame. La repressione è molto forte e il governo non lascia andare nessuno. I giovani devono fare tre anni di guerra, perché ci sono i problemi con Israele. I salari sono bassissimi, come 30 mila lire italiane al mese, tutti vogliono andare via. Veniamo in Europa per essere sfruttati, ma è meglio qui che là».