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Il lavoro minorile in Italia all’alba degli anni Ottanta. Il «caso» Chioggia

Redazione Spazio70

Da un articolo di «Lotta continua» (1980)

Immagine tratta dal quotidiano Lotta Continua (si ringrazia la Fondazione Erri De Luca)

La recente conferenza nazionale dell’infanzia, tenutasi a Roma, se ha visto la presentazione di alcuni interessanti materiali sulla condizione del bambino nel nostro Paese (le ricerche del Censis e l’inchiesta del Sindacato sul lavoro minorile) ha certo confermato la totale inadeguatezza delle analisi correnti e l’insufficienza dello stesso materiale «di studio» oggi disponibile in materia. La condizione dell’infanzia, al di là dei luoghi comuni, è tutt’ora un «oggetto» in buona parte sconosciuto. Le stesse innovazioni che in questi anni hanno investito i settori della pedagogia, della psicologia dell’educazione in generale, si fondano per lo più su «intuizioni» o studi intorno alla «soggettività» del bambino.

Ma il dato «oggettivo», per così dire, la profondità e l’estensione della condizione infantile, il suo intreccio materiale ed esistenziale col resto della società, non sono ancora documentati a sufficienza. Dai rapporti Censis apprendiamo che in Italia il tasso di mortalità infantile è ancora oggi tra i più elevati d’Europa, aggirandosi la media nazionale intorno al 20 per mille (con punte, in certe zone, superiori al 50 per mille). Questo solo dato, estremamente preoccupante, rivela di per sé come sia urgente affrontare seriamente l’analisi di questa realtà, frugando nel tessuto sociale e portandone alla luce i problemi e le dimensioni.

Molto spesso, infatti, i peggiori crimini e le peggiori violenze compiute ai danni dei bambini passano inosservate (restano impunite e si perpetrano) proprio per la vulnerabilità tipica dei minori, per il loro essere indifesi di fronte al prepotente e complicato mondo degli adulti. Tutto ciò emerge con particolare evidenza se si guarda da vicino la realtà del lavoro minorile. «Tutti sanno» che in tutta Italia molti bambini e bambine, ancora nell’età della scuola dell’obbligo, lavorano. E lavorano in grande numero, per molte ore, per salari bassissimi. Alcuni dati più precisi li presenta l’indagine sindacale di cui si è parlato alla Conferenza nazionale di Roma.

L’INTERESSANTE INDAGINE CONDOTTA DA UNA CLASSE DELLA SCUOLA MEDIA «SILVIO PELLICO» DI CHIOGGIA

Vogliamo qui, invece, segnalare un altro contributo su questo argomento: il suo raggio di ispezione è più limitato e chi ha condotto l’inchiesta non è certo un esperto ufficiale. Eppure questo materiale ci sembra di grande interesse.

La classe terza D della scuola media «Silvio Pellico» di Chioggia, in provincia di Venezia, si è messa, con l’aiuto di un insegnante, sulle tracce degli alunni della scuola cercando di carpirne i percorsi, al di là della routine scolastica. Si sapeva che erano molti gli alunni con varie esperienze lavorative: perché non provare, dunque, a saperne di più cercando di ottenere qualche dato più preciso? L’inchiesta nasce così e si basa su novantasette questionari compilati da alunni delle classi seconde e terze che hanno svolto una attività retribuita durante l’estate 1979.

«Innanzitutto», dice il documento conclusivo dell’inchiesta, «si può riscontrare che in alcune classi la percentuale degli alunni che hanno lavorato è superiore alla media; inoltre, in alcune, è più alto il numero degli alunni con ritardo scolastico. Il numero degli alunni maschi è più alto di quello delle femmine. Tra le numerose cause che determinano questa disparità, legata sia all’attività principale della città, la pesca, sia soprattutto al tradizionale ruolo assegnato alla donna, è da sottolineare il fatto che quasi tutte le ragazze collaborano regolarmente alle faccende domestiche, ma queste non sono considerate un vero lavoro e tanto meno sono retribuite. D’altronde anche le occupazioni esterne alla famiglia da parte delle ragazze ricalcano questo ruolo: nove ragazze su dodici sono state occupate come commesse e baby sitter».

Un dato significativo è questo: se i risultati dell’inchiesta venissero estesi a tutta la popolazione chioggiotta tra i dodici e i quattordici anni la percentuale di lavoro minorile in città sarebbe del ventisei per cento (contro una media nazionale del dieci-undici circa).

IL «CASO» CHIOGGIA

Chioggia è città marinara: sorge nel lembo estremo e meridionale della Laguna veneziana. Le attività principali sono: turismo, pesca e molluschicoltura, orticoltura e attività portuale. Intorno a questi settori il giro di affari è vertiginoso: una inchiesta recente calcola in circa 400 miliardi l’entità complessiva dei depositi bancari cittadini. Non si tratta di puro «risparmio»: in realtà buona parte del denaro resta congelato in banca per mancanza di sbocchi diversi. I possibili investimenti – si dice – vengono impediti dalla carenza di spazio (l’area chioggiotta è un intrico di fiumi e canali ritagliato tra il mare e la laguna) e così, finché non si saranno fatte nuove scelte di politica economica i soldi resteranno in banca.

La città appare comunque proiettata verso una trasformazione rapida: alcune grandi opere sono in fase di realizzazione e progetto e da esse Chioggia riceverà un volto almeno parzialmente nuovo. Oltre alla citata mancanza di spazi, tra le questioni di fondo vanno ricordate: il degrado abitativo del centro storico e la carenza di alloggi (si calcola in almeno un migliaio il numero delle famiglie che hanno urgente bisogno di una casa); la disoccupazione; il pendolarismo (circa tremila operai si recano ogni giorno a Porto Marghera, distante alcune decine di km da Chioggia).

L’attività prevalente tra i giovanissimi lavoratori è dunque la pesca (il trentadue per cento) e ciò si spiega sia con il peso che il settore ha nell’economia chioggiotta sia con il fatto che la maggior parte degli intervistati risiede nel centro storico della città dove la pesca è appunto l’occupazione dominante degli abitanti.

Le altre attività sono legate soprattutto al turismo nella stagione estiva e al volume di traffici e occupazioni che esso induce: il diciassette per cento dei ragazzi intervistati ha fatto il commesso, il dodici il banconiere. Solo una minoranza (il ventiquattro per cento) ha lavorato però nella vicina località di Sottomarina, il vero centro del turismo di massa. Ciò si spiega col fatto che gran parte del lavoro minorile si organizza all’interno delle realtà familiari. In prativa i bambini escono con le barche o aiutano nei locali, locande, alberghi a gestione familiare e i loro «principali» sono dunque, molte volte, gli stessi genitori. Di conseguenza il luogo di lavoro è in genere lo stesso – o nelle vicinanze – dell’abitazione.

L’ASSENZA DI CONTROLLI E LA PIAGA DEL LAVORO NOTTURNO

Immagine tratta dal quotidiano Lotta Continua (si ringrazia la Fondazione Erri De Luca)

Un dato davvero impressionante dell’inchiesta riguarda l’orario di lavoro: alcuni ragazzi lavorano fino alle dodici ore al giorno e qualcuno anche di più. Inoltre, se non bastasse, c’è anche il lavoro notturno: il trentuno per cento afferma di aver svolto attività lavorativa notturna (cioè tra le ventidue e le ore sei). «Alla illegalità», dice il documento, «si aggiunge altra illegalità: infatti la legge del 1967 sulla tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti stabilisce che gli stessi non possono essere adibiti al lavoro notturno prima del compimento del sedicesimo anno di età (mentre l’età minima per l’ammissione al lavoro è di quattordici anni nelle attività non industriali e di quindici anni in quelle industriali). Senza considerare poi il mancato rispetto del riposo festivo, sempre previsto dalla legge».

Quanto viene pagata questa precoce fatica? Qual è il prezzo di questo tempo sottratto alle più naturali esperienze dell’infanzia? Il sessantaquattro per cento dei ragazzi afferma di essere stato pagato meno di centomila lire al mese: «Ciò è dovuto», continua il documento, «in parte al fatto che i familiari spesso si sono limitati a corrispondere ai ragazzi una cifra simbolica (uno di essi ha guadagnato 100 mila lire in tre mesi di lavoro) in parte al fatto che data l’alta offerta di manodopera specie nella stagione estiva, e la mancanza assoluta di qualsiasi controllo, è possibile sfruttare come si vuole i minorenni: non solo derubandoli del salario, ma anche appesantendo fino all’inverosimile l’orario di lavoro».

Nel cuore di una città che ambisce a un intenso sviluppo per i prossimi anni, e che nel frattempo accumula ricchezza, si annida la piaga del lavoro minorile e del lavoro nero. L’uno e l’altro non sono che la faccia oscura dell’economia locale celata nell’intrico complesso di piccole unità produttive a base familiare, da una parte, e nell’ammasso caotico ma efficiente e foriero di grandi profitti dell’industria turistica dall’altra. Lo sfruttamento del lavoro stagionale non riguarda, è ovvio, solo i minori: ogni anno, centinaia di migliaia di persone, giovani, adulti e anziani, vengono spremute fino all’osso dai pescicani padroni del settore. Ma il caso dei minori e del loro lavoro, stagionale o continuativo, è particolarmente grave e odioso. Tra l’altro esso colpisce dei soggetti in piena età evolutiva, tendendo a condizionarne lo sviluppo personale a imporgli ritmi ed esperienze brutali ed estranee.

C’è un dato alla fine dell’indagine della terza D che emerge in modo preoccupante. Dopo aver rivelato i disagi e le oggettive ingiustizie incontrate nella propria esperienza lavorativa, la stragrande maggioranza dei ragazzi (il novanta per cento) la definisce tuttavia una «esperienza positiva». Il documentario elaborato dai giovanissimi curatori commenta significativamente: «Riteniamo che su questo influisca il desiderio di guadagnare del denaro, come affermano ventinove ragazzi, e anche una specie di autoconvinzione: è infatti difficile ammettere anche con se stessi che si è costretti a lavorare in una società come la nostra che si definisce opulenta anche se poi trentaquattro ragazzi affermano, in altra parte del questionario, di averlo fatto per aiutare la famiglia».

«LA SCUOLA? È UN LUSSO CHE I POVERI NON POSSONO PERMETTERSI»

Un altro recentissimo contributo alla conoscenza di questa realtà è il libro «Il mercato dei bambini», di Adriano Baglivo, uscito in questi giorni presso Feltrinelli. Baglivo è inviato speciale del Corriere della Sera per il Mezzogiorno e il libro è appunto la raccolta risistemata di una serie di articoli già apparsi sul quotidiano. Nel testo si cita una serie impressionante di casi di morte e di lesioni gravissime subite dai minori impiegati in attività clandestine, nei cantieri abusivi o nei laboratori invisibili dell’economia sommersa.

L’inchiesta spazia un po’ per tutta la Penisola, soffermandosi in particolare nel Sud dove il problema assume le più ampie dimensioni. Citiamo dalla lunga serie di casi riportati: «Maria C. è operaia in una fabbrica di scatole dove riesce a racimolare poco più di trentamila lire al mese. “E’ tutta una questione di soldi”, sostiene, “quando mancano si deve lavorare. O si sgobba o si salta la cena: è il nostro motto. La scuola è un lusso che i poveri non possono permettersi. Così me ne vado in fabbrica a soli quattordici anni. L’anno scorso fui assunta in una sartoria. Dalla mattina alla sera china a cucire per nemmeno trentamila lire al mese. Poi a momenti finivo all’ospedale con una forma di scoliosi e così ho preferito fabbricare scatole».

Francesco G, di 13 anni, figlio di un disoccupato venuto a Garbagnate (Mi) con la moglie e otto figli in cerca di lavoro. Per due volte ripetente, il bambino ha abbandonato la scuola: fa il garzone in una panetteria. Si alza alle quattro del mattino e lavora fino al tardo pomeriggio. «Non ho tempo per giocare», ha detto, «perché quando gli altri bambini sono in cortile per me è ora di dormire».

RICERCHE INCOMPLETE E ARRETRATE

Ma le storie più agghiaccianti sono quelle degli infortuni e delle morti sul lavoro: ci sono anche alcuni dati, risalenti purtroppo al 1970, che documentano la tendenza all’aumento di questi «incidenti». Nella prima parte del libro si fa il punto sullo stato delle ricerche sull’argomento scoprendo invariabilmente che sono arretrate, incomplete, insufficienti. L’ultima inchiesta disponibile è ancora del Censis nel quadro del Dodicesimo rapporto sulla situazione sociale del Paese (è del 1979). Ma qui i dati sul lavoro minorile si possono solo «intuire» deducendoli dalla dinamica delle iscrizioni alla scuola dell’obbligo che tendono a diminuire (-2,5 per cento tra il 1976 e il 1977). Un dato dunque molto parziale.

Bisogna risalire addirittura a una ricerca del 1969, condotta dalla Gioventù Aclista, per trovare un quadro più preciso del lavoro minorile. Secondo quel lontano rapporto i minori tra gli otto e i quindici anni che lavorano irregolarmente e ingiustamente in Italia sarebbero cinquecentomila. Una indagine successiva del 1971 condotta dal Ministero del Lavoro accertava una retribuzione media dei minori nelle aziende ispezionate oscillante tra le duemila e le seimila lire settimanali.

In cambio gli orari di lavoro risultavano molto pesanti: il diciannove per cento dei fanciulli era impiegato per sei ore al giorno, il cinquantaquattro per cento per otto ore, il trentacinque per cento per dieci ore. Come si vede i risultati dell’indagine «auto gestita» degli alunni di Chioggia appaiono pienamente verificati dai dati «ufficiali» e anzi semmai sono questi ultimi ad apparire come sottostimanti la realtà.