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Mistero della fede. L’attentato al Papa e le sue ombre. Quale fu il vero ruolo della Stasi?

Tommaso Nelli

La polizia segreta dell’ex DDR non fu né mandante e né complice di Ali Ağca, bensì un agente disturbatore delle indagini della giustizia italiana in favore della Bulgaria

La continuazione della Guerra fredda con altri mezzi. Bisogna parafrasare Carl von Clausewitz e la sua celebre massima su che cosa fosse la guerra in relazione alla politica per spiegare e comprendere il ruolo della Stasi nell’attentato al Papa. Il Ministero per la Sicurezza di Stato dell’ex Germania Orientale, «scudo e spada del partito», come recitava il suo motto dall’anno della sua costituzione (1950), onnipresente nella vita dei suoi cittadini tanto che dopo la caduta del Muro di Berlino emerse come tra informatori e impiegati ne avesse arruolato l’1,25%, è stato uno dei protagonisti delle indagini sul tentato omicidio di Giovanni Paolo II. E se ancora oggi la misura della sua azione non è quantificabile con precisione, ne è invece certa la forma: la polizia segreta dell’ex DDR non fu né mandante e né complice di Ali Ağca, bensì un agente disturbatore delle indagini della giustizia italiana in favore della Bulgaria.

LA RICHIESTA DI AIUTO AL LEGGENDARIO «MISHA»

Bulgaria-Stasi: prima richiesta di aiuto

Viene dunque da chiedersi il motivo di quell’intromissione e la risposta si ricava dal carteggio tra Sofia e Berlino Est, che inizia il 26 agosto 1982. Quando il colonnello Mitew scrive al suo omologo teutonico Damm per chiedere aiuto. «Compagno Damm! La prego di voler trasmettere quanto segue al direttore della sezione AM della HVA del MfS (Ministero per la Sicurezza), il colonnello Wagenbreth. Ultimamente sono apparse nei mass media di alcuni paesi capitalistici notizie tendenziose e menzognere secondo le quali l’attentato al Papa Giovanni Paolo II, nel 1981, sia stato l’opera degli organi del KfS e dei Servizi per la sicurezza bulgari che avrebbero concesso assistenza diretta al terrorista Mehmed Ali Agca fornendogli armi e denaro. […] Di fronte a questi fatti, si prega di accelerare la preparazione di documenti per l’operazione comune chiamata “Papa”» .

La HVA (Hauptverwaltung Aufklärung) era uno dei trentadue dipartimenti della Stasi, ma rispetto agli altri godeva di maggiore autonomia gestionale. Suddivisa in ben venti sezioni, si occupava del controspionaggio estero raccogliendo e studiando informazioni relative a tutti gli Stati riuniti sotto l’ombrello della Nato con particolare attenzione ai wessis, cioè ai cugini della Germania Ovest. Diretta dal leggendario Markus Wolf, Misha per gli amici a seguito dei suoi trascorsi in Unione Sovietica, fu protagonista di operazione storiche come aver infiltrato per anni una spia, Günter Guillaume, nell’ufficio di Willy Brandt, il cancelliere della Germania Occidentale. Fu la X° sezione, «competente per i provvedimenti attivi e per la strategia piscologica», ripartita a sua volta in sette divisioni con Wolf che la definì «il prato per i miei giochi», a occuparsi delle richieste dei bulgari. La cui paura non è essere scoperti come responsabili dei fatti di piazza San Pietro, quanto esserne accusati e vedere la propria immagine danneggiata agli occhi del mondo. Lo sottolinea un altro passaggio della nota di Mitew: «Si tratta evidentemente di una campagna diretta dai Servizi Segreti dell’avversario che ha lo scopo di screditare la Bulgaria attribuendogli legami con organizzazioni terroristiche».

UNA GUERRA FREDDA PIÙ «CALDA» CHE MAI

A Sofia erano già al corrente dell’articolo della giornalista Claire Sterling, che sulle colonne del New York Times il 17 agosto aveva accusato l’Unione Sovietica e la Bulgaria di aver armato la mano di Ali Ağca. E avevano fiutato il vero pericolo: la scampata morte di Wojtyla era un pretesto dell’Occidente per gettare fango sui Paesi del Patto di Varsavia. Una logica comprensibile calandosi nel contesto geopolitico dell’epoca. Anni Ottanta del Novecento, mondo diviso a metà, capitalismo da una parte, socialismo reale dall’altra. Gli Stati Uniti sono da poco sotto la presidenza Reagan, a trazione repubblicana e animata da un fervido quanto viscerale anticomunismo. L’URSS intanto è in crisi, Breznev è scomparso da poco e la sua decennale politica della stagnazione ha acuito le criticità di un Paese ora nelle mani di Andropov, medagliato capo del KGB affetto da problemi di salute legati all’età. E il Vaticano da quattro anni (1978) ha eletto un Papa nemico del comunismo al punto da spedire finanziamenti illeciti al movimento operaio di Solidarność che, altrimenti, avrebbe avuto ben meno vigoria nelle sue azioni di protesta contro il governo polacco.

La guerra fredda quindi era più calda che mai e ogni terreno fertile per uno scontro tra le due superpotenze che mettesse in difficoltà l’avversario. Soprattutto se riguardava una figura di rilievo internazionale come il capo della Chiesa cattolica. Una dimensione confermata anche dalla successiva corrispondenza tra Bulgaria e DDR. Il 4 dicembre 1982, a pista bulgara più che mai avviata con l’arresto del caposcalo della Balkan Air a Roma, Sergej Antonov, a scrivere è l’allora ministro dell’Interno, Dimitar Stojanov. E il destinatario è addirittura il vertice supremo della Stasi, Erich Mielke. La battaglia ormai è entrata nel vivo. «Compagno Mielke! […] Si prega di assisterci nella lotta contro la situazione internazionale. Già molto prima, i mass-media americani e di molti paesi dell’Europa occidentale hanno sparso insistentemente notizie inventate, e questo attraverso ogni possibile canale, sul “legame bulgaro” con l’attentato al Papa. Scopo di questa campagna è di suggerire alla pubblica opinione internazionale che questo atto criminale sia stato compiuto dal nostro Paese su istruzioni dell’Unione Sovietica. […] Si prega di voler pubblicare materiale idoneo e prendere delle misure attive, entro i limiti delle Vostre possibilità, che contribuiscano a chiarire la posizione dei nostri paesi, partiti e governi in merito ai problemi del terrorismo internazionale e della lotta contro il contrabbando, e di pubblicare materiali che mirino a smascherare la campagna messa in atto; sarebbe desiderabile che questo materiale fosse pubblicato possibilmente non solo nel Vostro paese, ma anche all’estero».

«GRAZIE PER L’AIUTO CONCRETO»

Markus «Misha» Wolf, capo del controspionaggio estero della DDR

Da questo documento si deduce come la Bulgaria non avesse responsabilità nell’attentato, altrimenti avrebbe chiesto ben altri aiuti per salvaguardare la sua posizione e soprattutto li avrebbe chiesti prima; come fosse consapevole di essere al centro di attacchi strumentali che a loro volta dimostravano il pieno svolgimento della guerra fredda; e come fino a quel momento l’aiuto della Stasi fosse stato soltanto verbale. Le «misure attive», ovvero azioni psico-strategiche finalizzate a destabilizzare lo scenario investigativo con materiale che allontanasse i sospetti, vengono attuate successivamente: «Desideriamo esprimerle il nostro cordiale ringraziamento per l’aiuto concreto fornitoci fino ad oggi dai servizi-fratelli nella lotta contro le perfide calunnie contro la Rep. Pop. Bulgara», si legge in un’altra missiva di Stojanov a Mielke del 1°febbraio 1983. Ma quando e in che modo sia avvenuto, quell’aiuto, non è dato saperlo, almeno secondo la documentazione in nostro possesso. Mentre fu del tutto irrilevante la sua influenza sull’azione degli inquirenti italiani, perché le indagini sulla pista bulgara proseguirono.

Tracce dell’intervento della Stasi sono invece visibili con cinque lettere spedite a intervalli irregolari tra il luglio 1983 e il dicembre 1985 da Francoforte sul Meno, Germania Occidentale, ad alcuni media italiani e stranieri e a istituzioni come il nostro Ministero di Grazia e Giustizia. Scritte in un tedesco sgrammaticato e senza mittente, contengono minacce nei confronti del giudice Ilario Martella, titolare dell’inchiesta sull’attentato, e dei suoi familiari. E soprattutto – altro dato interessante e mai chiarito – non chiedono mai la liberazione dei bulgari, ma dei turchi con loro imputati, in particolare Ağca e il leader della Federazione degli Idealisti Turchi, Musa Serdar Çelebi. Ne è un esempio quella giunta il 18 dicembre 1984 all’ambasciata italiana a Bonn: «Il Giudice Martella non tiene in alcuna considerazione le nostre richieste di rimettere in libertà Mehmet Ali Agca, Serdar Celebi e tutti i nostri amici. Il giudice Martella dimostra in tal senso un atteggiamento provocatorio. Finché le nostre richieste non verranno accolte consideriamo il giudice Martella e la sua famiglia insieme a tutte le rappresentanze italiane nella Repubblica Federale di Germania come ostaggi».

Fiabesco comunque soltanto immaginare che simili contenuti abbiano influenzato il verdetto della Corte di Assise di Roma che nel marzo 1986 assolverà tutti gli imputati. Perché a determinarlo saranno le ripetute ritrattazioni da parte di Ağca delle sue argillose accuse. E soprattutto l’accertata loro estraneità da parte dei tre bulgari finiti alla sbarra.

È STATO DESECRETATO PROPRIO TUTTO?

Occorre però attendere la metà degli anni Novanta per scoprire il ping-pong tra Stasi e Bulgaria e la paternità di quelle lettere. Caduto il Muro di Berlino, la DDR era stata annessa all’ex RFT (Repubblica Federale Tedesca) per dare vita alla Germania di oggi ed era stato messo in piedi un ente federale, diretto dal pastore protestante Johachim Gauck, per custodire gli archivi dell’ormai defunto Ministero per la Sicurezza, dove migliaia di documenti erano stati danneggiati o andati distrutti. Così il giudice istruttore Rosario Priore, titolare dell’inchiesta sui mandanti dell’attentato al Papa, inoltra la rogatoria e nella primavera del 1995 riceve l’incartamento che svela la collaborazione tra Bulgaria e Germania Est. Informato poi di un servizio andato in onda sulla rete televisiva tedesca Zdf, che ipotizzava addirittura un coinvolgimento della Stasi nell’attentato grazie anche alle testimonianze di Günter Bohnsack, colonnello della X° Sezione che dopo il 1989 si era rifatto una vita con un libro e fiumi di interviste sul suo passato, fa partire una nuova rogatoria per interrogare quest’ultimo, Mielke e Wolf. Si presenta soltanto l’ex ufficiale, che nell’interrogatorio del 24 aprile 1997 riconosce l’azione disturbante della Stasi e la fabbricazione di quelle lettere: «Dovevano essere messe in giro – p.e. attraverso i mass-media – delle voci sul concorso della CIA all’attentato. Questo modo di procedere avrebbe dovuto essere collegato a persone e fatti concreti. Falsificazione di lettere, produzione di lettere fittizie». Ma soprattutto sottolinea altri due fatti importanti: l’estraneità all’attentato della Stasi«Da noi nessuno ne era al corrente. Eravamo tutti sorpresi, non ci sono state segnalazioni di tali incidenti. Ne ho sentito solo dalla stampa. […] Subito dopo l’attentato non c’è stata nessuna nostra iniziativa operativa»– e le preoccupazioni dei bulgari soltanto dopo gli articoli della Sterling: «Immediatamente dopo l’avvenimento (l’attentato), non ci avevano chiesto alcun disorientamento […] ma solo quando, da parte di terzi, fu formulato il sospetto contro di loro».

La sua deposizione conferma i documenti, da capire e non soltanto da leggere per chi fa il nostro mestiere, chiarifica il ruolo dell’ex polizia segreta e dirada altre nebbie sull’ormai consunta e rancida pista bulgara. Ma rileggendola oggi lascia aperte alcune domande: visto che dall’azione di Priore sono trascorsi venticinque anni, nei quali a Berlino è proseguito il riordino e la ricostruzione dell’attività della Stasi, al 103 di Ruschestraße è stato trovato altro su quella solidarietà ai fratelli bulgari? E più a Sud, a Sofia, è stato desecretato proprio tutto quello che c’è da sapere su quanto accadde in piazza San Pietro il 13 maggio 1981?