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La Prussia con la bandiera rossa. Reportage da Berlino Est (1977)

Redazione Spazio70

di Alberto Baini per «Epoca»

Si passa ancora come una volta nel solito vecchio baraccamento, tra il rumore dei cancelli di ferro che si aprono e si chiudono dietro a ogni persona, col il vopos, l’uomo dell’esercito popolare, che confronta due volte le facce e le foto dei passaporti con un rigore da sergente prussiano. Anni fa, i lunghi controlli, le perquisizioni, i rifiuti, davano il senso del dramma, una vaga apprensione e il tempo di misurare lo spessore del muro. Ora, se non si cade su una fila di turisti, ci si ritrova dall’altra parte in pochi minuti e solo una vetrina di vini ungheresi o bulgari, un ritratto di Breznev in cornice dorata, avvertono che dalla Berlino dei capitalisti si è passati nel «primo Stato tedesco degli operai e dei contadini».

Il senso del dramma è rimasto. Al primo angolo di là dal checkpoint (il passaggio del muro) c’è sempre gente che aspetta qualcuno che deve arrivare, ci sono abbracci, ritrovamenti, coppie che non si decidono a separarsi di nuovo. Il muro si stende per 61 chilometri, taglia 277 strade della vecchia Berlino, corre dentro a una fascia di silenzio e di vuoto, è una macchina di guerra automatica e perfetta che tutti, qui, in sedici anni, hanno imparato a guardare con impotenza o con rassegnazione. Come in nessun altro posto del mondo, la gente a Berlino ha il senso della storia e delle sue sentenze.

I BAGLIORI DELLA RICCHEZZA OCCIDENTALE SONO PIÙ ALTI DEL MURO

(Foto di Mauro Galligani)

Al contrario di Berlino Ovest, che è ancora un problema per gli esperti di diritto internazionale, Berlino Est è la capitale della Ddr, la Repubblica democratica tedesca. La torre della televisione rossa (360 metri, l’«asparago») domina l’intero paesaggio. Intorno vi sono le spaziate architetture del mondo comunista, le piazze immense che hanno al centro una statua di Lenin, i resti monumentali della Germania imperiale. […] Ha problemi ingrati che le altre capitali dell’Est non conoscono. Si misura con la società tedesco-occidentale (quella che in fondo ha avuto il maggiore successo nel dopoguerra) e le rinfaccia le cose che può: la precarietà del lavoro, le ingiustizie sociali, il milione di disoccupati. «E’ molto bello», dice la campionessa di nuoto Christine Brehmer, «avere scelto la strada del socialismo: un giovane da noi non rischia di uscire dall’università per entrare nell’esercito dei disoccupati». Poiché i bagliori della ricchezza occidentale sono più alti del muro, Erich Honecker – segretario del Comitato centrale – deve preoccuparsi nei suoi discorsi di cose che non lo turberebbero se stesse a Praga o a Varsavia: «Il consumo della frutta tropicale è aumentato nel nostro Paese del 64 per cento». Anche la dissidenza qui, pone problemi diversi: un caso come l’espulsione del cantante Wolf Biermann non riecheggia soltanto in capitali lontane, ma venti minuti dopo, in fondo alla strada. A Berlino le distanze tra i sistemi e le ideologie si misurano in metri.

Appena passato il celebre e vecchio checkpoint della Friedrichstrasse le strade vuote, il rumore dei passi, la gente che va con una borsa o con un sacchetto di plastica in mano, ripropongono come immagini di repertorio un mondo comunista modesto o povero di fronte alla ricchezza e agli sciali dell’Occidente. In realtà la Germania Orientale esce da questo schema. E’ la decima o l’undicesima potenza industriale del mondo. Il suo livello di vita è il doppio di quello dell’Unione sovietica. I suoi grandi magazzini, a Natale, non erano molto diversi per abbondanza di merci da quelli di casa nostra. Non c’è confronto possibile tra le condizioni di un operaio di Berlino Est e uno di Varsavia o di Praga. Se in Polonia o in Cecoslovacchia succede che un piano non dia i vantaggi economici che aveva annunciato, questo non avviene nella Germania Orientale. Nei palazzi del regime – e anche a Mosca – tutti sono convinti che non sia saggio fare promesse vane ai tedeschi.

L’ESIGENZA DI RASSICURARE IL CREMLINO

Predominano nel Paese la radice prussiana e una pesante burocrazia di modello sovietico. Sono rimaste di qua dal muro le statue dei grandi marescialli (Blucher, Gneisenau), le tradizioni del militarismo, le dimore e la tomba di Federico II. I reggimenti che oggi marciano dietro la bandiera socialista conservano ancora rustiche insegne come le corna di bue che ebbero secoli fa dai Principi Elettori della Prussia o del Brandeburgo. Gli stranieri notano con ironia che in nessun posto al mondo si può vedere un passo dell’oca perfetto come a Berlino Est e che la comparsa di un reggimento affascina i bambini più di un incontro di calcio. Ogni mercoledì mattina, sulla Unter den Linden, la guardia viene cambiata al tempio della vittoria sul nazifascismo. Un reparto di soldati si muove alle undici da una caserma lontana, avanza per le strade della vecchia Berlino, supera ponti ancora ornati da aquile imperiali e sempre con la fanfara in testa – i pifferi, i tamburi, le ocarine – punta sul tempio tirandosi dietro i ragazzi, i turisti e gli sfaccendati. Per questa passione militare che desta in loro, probabilmente, vecchi e cattivi ricordi, i sovietici mostrano una punta di diffidenza. I carri armati compaiono nelle sfilate dell’esercito tedesco per la festa della Repubblica e in altre grandi occasioni, ma voci malevole dicono che i russi li prestano e subito li rivogliono indietro.

Con l’Unione Sovietica e la Germania di Bonn, questa Prussia dei rossi vive un doppio e tormentoso rapporto. Tra i Paesi del blocco comunista è insieme più legato e il più esposto. Ha vissuto fino a ieri un immobile stalinismo. I suoi dirigenti fanno continua visite a Mosca come se sentissero il bisogno di rassicurare il Cremlino e se stessi con la recitazione ossessiva del credo socialista. Il loro ossequio – come nel caso del discorso di Honecker per i settant’anni di Breznev – arriva a punte perfino imbarazzanti. Con tutto questo, nessuno attacca gli eretici dell’eurocomunismo: la Germania Orientale è il solo Paese del blocco che ha pubblicato integralmente i documenti della conferenza dei partiti comunisti a Berlino, compreso il discorso di Berlinguer con la condanna dell’intervento sovietico a Praga.

L’80 PER CENTO DEI TEDESCHI ORIENTALI VEDE LE TRASMISSIONI DELL’OVEST

(Foto di Mauro Galligani)

Ma il legame con Mosca è una catena pesante. Ne dipende l’economia. L’ultima costituzione (1975) proclama «il carattere definitivo e irreversibile dell’alleanza con l’Urss». La liberazione dal nazismo e la nascita di una Germania nuova sono un debito eterno e il fondamento dello Stato. Il regime li celebra quasi ogni giorno, in mille maniere, e Mosca fa la sua parte anche nei dettagli minimi. Calvo e ingrassato ritorna ogni tanto a Berlino quel soldato dell’Armata rossa che una delle foto più celebri della seconda guerra mondiale mostrò mentre piantava la bandiera con la falce e il martello sul tetto del Reichstag. Ricompaiono anche altri veterani delle avanguardie di Zukov. Tornano nei quartieri che liberarono, raccontano le loro storie di guerra. Intorno ci sono i «pionieri», i ragazzi rapiti dall’avventura, e vecchie persone che vissero quegli stessi momenti in una cantina.

L’altro tormentato rapporto riguarda i tedeschi dell’Ovest. E’ davvero inutile che nelle edicole di Berlino Est non si trovino il Times, la Welt o il giornali di Springer. L’ottanta per cento dei tedeschi orientali (non solo dei berlinesi) vede tranquillamente le televisioni dell’Ovest e dal baratto Bukowski-Corvalan* fino al prezzo delle arance sui mercati di Amburgo non c’è nulla che ignori. Ne ebbe la prova uno scrittore della Germania comunista, Stefan Heyms, che andato nella Repubblica federale per un dibattito o una intervista in tv, cominciò a ricevere sorrisi e rallegramenti, al ritorno, dalle guardie di frontiera. Vennero poi l’autista del taxi, gli amici, il barbiere. «Mi avevano visto e sentito tutti», disse.

I NUMEROSI ACCORDI – OCCULTI, PALESI, TACITI – TRA LE DUE GERMANIE

Anche per queste ragioni (il guardarsi di continuo al di sopra del muro), tutti i problemi tendono a diventare più acuti. Un caso polacco resta un caso polacco. Con notizie ingigantite e molto spesso alterate, gli altri, gli occidentali, vivono qualsiasi cosa succeda nell’Est come un caso anche loro portandolo su un piano pantedesco che la Ddr non può accettare. Riparte così con il movimento di un pendolo, un meccanismo che alimenta continue tensioni. Un giudice federale assolve il soldato Werner Weinhold che, per fuggire dalla Germania orientale, ha ucciso due guardi di frontiera. La Ddr reagisce con l’espulsione del giornalista Lothar Loewe, corrispondente di una tv occidentale. Radio Colonia trasmette per due ore canzoni di Biermann e all’Est si parla di provocazione, parola di gergo che annuncia sempre una rappresaglia nuova.

In realtà a dispetto del pendolo, nessuno ha interesse a richiudere una porta che s’è appena aperta. Accordi di ogni genere – occulti, palesi, taciti, ufficiali – corrono tra le due Germanie. E troppi casi umani, fastidiosi, imbarazzanti per i due governi, si legano alla relativa distensione di oggi. C’erano dieci linee di telefono tra le due Berlino appena qualche anno fa e ora gli abitanti delle due zone si chiamano sei milioni volte ogni anno. Nel solo 1976, si sono avuti nel senso Ovest-Est dieci milioni di passaggi del muro o della frontiera: quattro volte di più che nel 1971. Nello stesso periodo, un milione e 400 mila tedeschi orientali hanno ottenuto dal loro governo il visto per un viaggio in Germania federale: quindici volte di più che nel 1971.

«LA GENTE SOPRA I 50? FA FINTA DI CREDERE NEL SOCIALISMO»

(Foto di Mauro Galligani)

La frontiera si è aperta senza lunghe trafile anche per 46 mila persone che «gravi o urgenti ragioni familiari» chiamavano all’Ovest: nessuna domanda di questo tipo era stata accolta dal governo della Ddr sei anni fa. Questi buoni rapporti sono nell’interesse comune. Il cancelliere Schmidt mira a rafforzare il rapporto privilegiato con l’altra Germania lasciando da parte le questioni ideologiche; Honecker ha bisogno delle relazioni commerciali con Bonn e dei crediti che gliene vengono. Questo spiega perché Biermann è rimasto solo e nessun tamburo di guerra ha rullato per lui. «Eccesso di romanticismo» ha sentenziato l’Ovest. Freddamente il Frankfurter Allgemeine Zeitung – un giornale vicino agli ambienti finanziari – ha relegato il caso nelle pagine del feuilleton «come se fosse un semplice litigio tra intellettuali».

Così Berlino Est, che per tanti anni era stata la faccia più dura del mondo comunista, s’è un po’ rilassata. Il riconoscimento internazionale e il trattato di Helsinki l’hanno portata ad abbandonare molte delle sue vecchie chiusure staliniane.

In conversazioni informali, alcuni dei suoi dirigenti ammettono che considerano come perduta, ormai, la gente dai 50 anni in su: «E’ inutile volerla spingere a credere o a far finta di credere nel socialismo». Si occupano di fasce sociali più ridotte, dei giovani, e in questo modo il lavoro ideologico diventa meno angoscioso. La rivista tedesco-occidentale Stern riferisce che molti ragazzi, quando sentono gli adulti criticare qualcosa che non va nel Paese, li interrompono meravigliati: «Ma perché non lo dire a Honecker?». Il potere dello Stato è molto pesante. C’è un poliziotto ogni 250 persone e una burocrazia che si presta alle battute nei cabaret di Berlino Est: «Non è la burocrazia che è troppo grande, da noi. E’ il Paese che è troppo piccolo». Il muro rimane «come necessità». Il regime sa con certezza che se ne andrebbero medici, tecnici, ingegneri, molti di quei giovani «quadri» che potrebbero ritagliarsi ottime carriere nella Germania federale e che non amano il loro inserimento nella classe unica della società socialista. Se ne andrebbero anche moltissimi giovani, per buone e per cattive ragioni: «L’Occidente li abbaglierebbe. Spesso per loro è soltanto una moto». Questa, di solito, è la risposta ufficiale.

 

DOPO SEDICI ANNI DI MURO, I RAPPORTI TRA I TEDESCHI DEI DUE «PIANETI» NON SONO SEMPLICI

Sembra che 150 mila persone abbiano chiesto ufficialmente di andarsene. C’è anche chi s’è rivolto alla magistratura nel nome del trattato di Helsinki («libera circolazione degli uomini e delle idee»), ricavandone soltanto una visita della polizia. In dicembre, nell’ufficio che la Germania federale mantiene a Berlino Est, quaranta o cinquanta persone si presentavano in media ogni mattina chiedendo di essere aiutate ad andarsene. I funzionari le ricevevano cortesemente e questo era tutto quello che potevano fare. Esce senza problemi soltanto chi ha raggiunto l’età della pensione, chi è fuori insomma dal circuito produttivo. Esce e talvolta ritorna. Dopo sedici anni di totale separazione (il muro è del 1961) i rapporti tra i tedeschi dei due pianeti non sono semplici. In numerose inchieste quelli dell’Occidente hanno cercato di capire se i loro fratelli dell’Est siano ancora tedeschi. Hanno una vita più distesa, meno problemi con il lavoro, «dicono cose orribile del comunismo però non sopportano che lo facciamo noialtri». Spesso sono stanchi della propaganda, delle formule rituali del Neues Deutschland (il giornale del partito) e di una dottrina nella quale non credono. Però informati come sono sulle cose dell’Occidente trovano «immorali» gli appannaggi degli eredi dei Krupp, i guadagni dei medici, i licenziamenti nelle industrie dell’Ovest «quando i padroni piangono perché guadagnano un po’ meno di prima».

Nella vita culturale Berlino Est rivendica il primato. La sera al muro si vedono persone eleganti e studenti barbuti che passano il varco per andare agli spettacoli del Berliner Ensemble (il teatro brechtiano), alla Komische Oper o al Deutsche Staatsoper: è una impresa procurarsi i biglietti. Nei teatri, come alle feste popolari, si notano la nuova socialità dei tedeschi rossi, la loro abitudine a vivere insieme. Nella Alexanderplatz, quasi simbolicamente, c’è la panca più lunga del mondo: 127 metri. Il palazzo del Popolo, con i suoi saloni, viene usato da tutti. Ci sono sale da concerto e da ballo, divani e poltrone. Serve a chi non sa dove andare, come alle coppie che la neve ha scacciato dai parchi. Nei ristoranti di lusso, per esempio il Ganymede, i tavoli vengono spesso usati in comune, come da noi succede nelle osterie. I camerieri portano il frac, perché dovunque nella Germania Orientale c’è un rispetto della forma quasi ossessiva. Gli studenti baciano la mano alle studentesse (alle otta di mattina, nei gelidi cortili dell’università), non si entra senza cravatta in una sala da ballo e un manuale di buone maniere – venduto in 600 mila copie – insegna giustamente «che mangiare il pesce con il coltello non è un gesto rivoluzionario».

GLI APPELLI DEL REGIME «A NON PERDERE UN MINUTO, A LAVORARE BENE»

In un Paese dove non esiste il fidanzamento, ma subito qualcosa di molto più deciso, si consiglia alle spose di non rinunciare all’abito bianco: «Non è forse questo, cara sposa, il giorno più bello della tua vita?». C’è chi richiede per la cerimonia cocchio e cavalli, prestati dal comune. Non a torto un rappresentante di Bonn a Berlino Est disse una volta che «la Germania Orientale è l’ultimo Stato borghese in territorio tedesco». Muore più gente di quanta non ne nasca (181 mila nati, 241 mila morti nel 1975) e così il regime fa una politica demografica con crediti agevolati per chi si sposa. Lavorano tutti, i figli passano a scuola l’intera giornata. Il costo della vita è modesto. Uno stipendio medio sta sugli 880-850 marchi (trecento mila lire al cambio del 1977), l’affitto di un appartamento va dai 40 agli 80 (da 15 a 30 mila lire). Il governo spende 14 miliardi di marchi ogni anno per mantenere i prezzi bloccati. Il biglietto dell’autobus che porta i figli a scuola costa dieci pfenning, nove volte di meno che dall’altra parte del muro. Come in tutti i Paesi comunisti, c’è un enorme divario tra le cose indispensabili e quelle che non lo sono. Un chilo di arance, un lusso, costa un marco e 80 all’Ovest, ma 4,10 all’Est. La birra, indispensabile, è meno cara della metà. Il sabato sera, gruppi di italiani e di turchi, operai o manovali a Berlino occidentale vengono a passare tre ore di qua dal muro perché una cena in un ristorante o una lunga bevuta costano tre volte di meno che dalla loro parte.

L’acquisto di un’automobile prende tre anni di salario e quasi sette di attesa: l’uomo che passa sulla Unter den Linden nell’auto della scuola guida è un tale che ha fatto una coda di 1500 giorni. Si accentuano comunque molte forme di consumismo. Il regime manda appelli quasi accorati «a non perdere un minuto, a lavorare bene» e come in un baratto tra impegno e benessere apre fabbriche di mobili e di abbigliamento, di elettrodomestici.

A Berlino Est c’è la televisione in 82 case su cento e la lavatrice in 83. E’ quella che Honecker chiama, in una formula fissa dei suoi discorsi, «l’unità della politica economica e della politica sociale». Poiché si tratta dopo tutto della stessa città, la nevrosi del confronto si manifesta anche qui come a Ovest. E’ ormai evidente l’intenzione di fare di questa Berlino la grande Berlino dei futuro. Non è rinchiusa come l’altra dentro un confine, non ha problemi di spazio. I casi della storia l’hanno anche aiutata: sono rimasti di qua dal muro cattedrali, monumenti, palazzi, su cui erbe selvatiche sono cresciute per più di trent’anni e che adesso vengono restaurati. Unico ricordo ingombrante e sgradito, la sede della Gestapo nella Albrechtstrasse. Il governo e la gente ne farebbero volentieri a meno, ma ormai non possono più liberarsene. E’ una specie di bunker gigantesco, con bocche di lupo al posto delle finestre. Himmler lo volle così perché potesse resistere ai più furiosi bombardamenti e in questo senso fu un lavoro ben fatto. Per demolirlo ci vorrebbe la dinamite, ma salterebbe anche il quartiere. Tagliarlo a pezzi e portarlo via – con il sistema usatO per i templi di Assuan – è troppo costoso. Il governo per ora ha altre cose da fare.

 

* Il 18 dicembre 1976, mentre era in prigione, il dissidente sovietico Vladimir Bukovskij beneficiò di un accordo di scambio di prigionieri politici (frutto di una forte mediazione internazionale) fra il regime cileno di Augusto Pinochet e l’URSS che portò alla contestuale liberazione del segretario Partito Comunista del Cile Luis Corvalán. Lo scambio avvenne a Zurigo e nel suo racconto autobiografico Il vento va, e poi ritorna, Bukovskij racconta come fu trasferito in Svizzera in manette