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L’omicidio del carabiniere Romano Radici

Redazione Spazio70

Roma, 6 dicembre 1981: la violenta sparatoria nei pressi della piramide Cestia

Roma, 6 dicembre 1981. A meno di ventiquattro ore dal tragico conflitto a fuoco alla stazione Labaro durante il quale ha perso la vita il neofascista Alessandro Alibrandi (mentre il poliziotto Ciro Capobianco, finito in coma, morirà il giorno 7), due superstiti della violenta sparatoria si trovano ai giardinetti di via Marmorata con un grosso problema da risolvere. Ciro Lai e Pasquale Belsito, giovani militanti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, devono ora garantire una tranquilla convalescenza a un loro camerata, il terrorista nero (e futuro collaboratore di giustizia) Walter Sordi, ferito a una mano durante lo scontro con le forze dell’ordine. Dopo l’arresto dei fratelli Fioravanti e la morte di Alibrandi, i Nar stanno accelerando irreversibilmente la loro fase di declino. Appena diciannovenne, Belsito ha poca esperienza in ambito logistico e Lai non è pratico della città.

LAI E BELSITO SCAMBIATI PER UN PUSHER E UN TOSSICODIPENDENTE

Romano Radici (a destra) e il collega Antonio Smimmo ai lati della «Cigno 12» (fonte dell’immagine: noiradiomobile.org)

I due discutono animatamente in merito al da farsi, sono stralunati e visibilmente stanchi. La Gazzella «Cigno 67» del nucleo radiomobile dei Carabinieri passa proprio davanti ai terroristi. Quei giardinetti nei pressi della Piramide Cestia sono una nota piazza di spaccio e i militari a bordo del veicolo scambiano i due ragazzi per un pusher e un tossicodipendente. Il brigadiere Massimo Rapicetti e il carabiniere Romano Radici decidono di effettuare un controllo. Non appena avvistano le forze dell’ordine i due Nar siedono su una panchina ostentando indifferenza. A seguito dell’invito a esibire i documenti Lai si incammina verso i militari mentre Belsito, riposto in tasca il giornale che ha in mano ed estratto rapidamente un revolver, fa fuoco verso Radici, 38 anni, padre di due figli, colpendolo mortalmente al collo e all’ascella sinistra. Spara anche Lai: Rapicetti risponde al fuoco mentre i terroristi si danno alla fuga.

Durante l’inseguimento a piedi, Belsito si dirige verso l’ufficio postale dell’Ostiense mentre Lai cerca di salvare il suo camerata dall’arresto sparando al carabiniere che lo rincorre. Dopo aver svuotato il caricatore della sua 9 Parabellum, Lai si dilegua saltando al volo su un autobus in partenza; nel frattempo anche Rapicetti ha finito i colpi. Giunto nei pressi delle Poste, Belsito viene intercettato da una Giulia con targa civile del Nucleo Antirapina della Polizia. Nasce un secondo conflitto a fuoco. Il neofascista spara contro la vettura bucando il lunotto posteriore e colpendo al petto l’agente Mauro Colangeli che sopravvive grazie al portafogli sotto la giacca che attutisce il colpo. Intanto, un proiettile esploso dall’altro agente in borghese colpisce il terrorista a una natica.

Nonostante la ferita, Belsito si dilegua nascondendosi inizialmente in una caserma dei vigili del fuoco, successivamente esce in strada puntando la pistola contro una Fiat 127 bianca: la coppietta nel veicolo, terrorizzata, cede la vettura al giovane armato. Intanto i vigili del fuoco rinvengono in caserma un quotidiano sporco di sangue che dedica la prima pagina alla sparatoria del giorno precedente.

Qualche ora più tardi giunge alla redazione di un giornale un comunicato telefonico dei Nuclei Armati Rivoluzionari che rivendica l’omicidio del carabiniere Radici come «vendetta per l’uccisione del camerata Alessandro Alibrandi».

ANNA MARIA TURCHETTA (VEDOVA RADICI): «LO STATO? CI HA ELARGITO I FAMOSI 100 MILIONI DI LIRE, IL PREZZO DELLA VITA DI UN UOMO. POI CI HA COMPLETAMENTE ABBANDONATI»

«La mattina del 6 dicembre 1981 mio marito uscì di casa alle 5 del mattino per recarsi in servizio. Era domenica e dalla sera prima era d’accordo che alla fine del turno ci avrebbe raggiunto per pranzare tutti insieme. Verso le ore 12, mentre si ultimavano i preparativi del pranzo, venne accesa la tv e in un attimo la nostra vita è cambiata. Non riuscivamo a capire ciò che diceva il giornalista, il nostro sguardo era ipnotizzato sulla foto che appariva sul video: mio marito. Da quel momento i nostri ricordi sono i flash di un incubo, la macchina dei Carabinieri che ci viene a prendere e ci porta presso l’istituto di Medicina legale, quella stanza fredda e buia e il tavolo dove era adagiato il corpo di mio marito. Le lacrime, l’attonimento, non riuscivano a coprire quel continuo mormorio: “È stato ucciso dai terroristi”, “l’hanno ammazzato come un cane”, “aveva solo 38 anni”, “come farà la moglie a tirare su da sola due creature?”. E noi pensavamo: “I terroristi? Cosa c’entrano con mio marito? Queste sono cose che si sentono solo in tv; lui stava facendo solo onestamente il suo lavoro, per pochi soldi, che spesso non bastavano ad arrivare alla fine del mese”. E i flash continuano, una marea di gente che ci abbraccia e piange con noi, i funerali, il giorno dopo, con tante persone importanti che ci vengono a salutare come se ci conoscessero da sempre; ma noi li avevamo visti solo alla televisione. Poi il risveglio. Ma l’incubo non era finito, anzi da quel momento è iniziata la dura realtà. Dopo tanta gente, la solitudine, la rabbia, il dolore, il non riuscire ad accettare quel destino crudele che mi aveva reso vedova a 38 anni e orfani i nostri figli nel momento della loro vita in cui il papà è un punto di riferimento, il perno della casa su cui ruota l’equilibrio di una famiglia. Il dolore e la rabbia sono continuati nel corso degli anni in cui si sono svolti i tre processi. Il governo italiano mandò in rappresentanza le sue più alte cariche il giorno del funerale, così sono state fatte le foto e i filmati per giornali e tv. Ci ha elargito i famosi 100 milioni di lire, il prezzo della vita di un uomo, poi ci ha completamente abbandonati. Ricordiamo ancora che i primi soldi per pagare i nostri avvocati di parte civile sono stati raccolti tra i colleghi di mio marito, il restante lo abbiamo pagato di tasca nostra. Solo i colleghi non ci hanno mai abbandonato e ancora oggi, dopo tanti anni, sono ancora affettuosamente presenti. Ma la nostra rabbia per questo menefreghismo da parte dello Stato non è diminuita. […] Abbiamo appreso della cattura di Belsito in Spagna, da un trafiletto riportato solo da qualche quotidiano. Noi, la famiglia, la parte lesa, non siamo degni di essere messi al corrente, da parte del nostro governo, sulle sorti di coloro che ci hanno cambiato la vita. Che l’hanno tolta a mio marito volontariamente, per dei motivi politici che non comprendiamo; a un uomo, un padre di famiglia, che non ha potuto vedere crescere i propri figli, stare accanto alla sua donna ed abbracciare il suo primo nipote. A noi hanno sottratto il marito, il padre, il nonno». (Testimonianza proveniente dalla pagina Facebook «Il nucleo radiomobile dei Carabinieri. La storia»)

 

[Di seguito, il documentario del regista Ambrogio Crespi sulla figura di Romano Radici]