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Processo a Ordine nuovo. La «rivoluzione» secondo Concutelli

Redazione Spazio70

«La paternità della decisione che portò alla morte del giudice Occorsio? Non l'ho mai rifiutata. La sto pagando, ma non l'ho mai rifiutata»

Concutelli, ma il vostro ricorso all’autofinanziamento, cioè le prime rapine…

«Per me risale al 1972. Per gli altri non so».

— Ma fu mutuato dalla delinquenza comune o ci fu qualche altra cosa?

«No. Ci dovemmo improvvisare. Io con gli anni sono diventato materialista, però per tanto tempo sono stato schiavo dello spettro della dicotomia spiritualismo/materialismo che mi veniva prospettata dai miei “educatori”. Dicotomia che ha influenzato molti atti della mia vita. Sia per questo che per il tipo di educazione ricevuta. Se in strada, mettendo la mano in tasca, mi fosse capitato di accorgermi che la signorina alla cassa di un esercizio pubblico mi aveva reso di resto più di quanto io le avessi dato, io facevo a piedi cinquecento metri o un chilometro per tornare indietro a restituirlo. Però nel momento stesso, io che avevo vissuto la contestazione, il ’68, e non dalla parte che pensate voi della barricata, ho imparato sulle mie spalle dal comportamento dei miei compagni e dal comportamento di tutti, che non si può fare la rivoluzione contro papà con i soldi di papà. Le barricate contro papà non si fanno mai col mobilio di papà. Se io decido di trasgredire e mi metto contro l’ordinamento corrente mi metto anche contro la morale corrente. Se decido di trasgredire io devo rubare. Quindi, arrivando al punto, ci dovemmo improvvisare ladri e quando parlo di ladri parlo proprio di ladri nella forma più bieca del termine perché noi ci dovemmo improvvisare rapinatori. Noi però eravamo motivati, eravamo convinti di stare dalla parte della ragione. Le prime volte dovemmo rubare usando delle armi assurde: calibri disparati, fucili da caccia levati dalla vetrinetta del fratello maggiore a sua insaputa… poi successivamente ci impratichimmo, diventammo dei gran ladri ma all’inizio non è stato così quindi non abbiamo mutuato niente da nessuno».

ORDINE NUOVO COME «MOVIMENTO DOTTRINARIO»

— Poi siete andati all’estero?

«No, per lo meno all’inizio siamo rimasti in Italia. Già il malcostume di riparare all’estero e di predicare la pace lontani dalla guerra o la violenza lontani dallo scontro, senza provare nulla sulla propria pelle, ci sembrava un assurdo. Ci sembrava immorale. Rimanemmo in Italia e all’inizio ci scontrammo con determinate situazioni anomale create dalla classe dirigente residua, diciamo. Cosa era successo? Era successo che mentre noi si ricorreva sempre di più alla clandestinità, e quindi ai modi di comportamento tipici della clandestinità, i nostri dirigenti avevano investito di responsabilità delle persone che erano persone che conducevano una vita normale, apparentemente normale. O addirittura conducevano vita politica normale. Quindi queste persone avevano una concezione del momento e della lotta completamente differenti dalle nostre e addirittura avevano delle ideologie differenti dalle nostre. Il Movimento Politico Ordine Nuovo, come tutti i movimenti nati a destra, anche se poi non è morto a destra, come tutti i movimenti nati a destra non era un movimento ideologico, era un movimento dottrinario. Ora, lor signori mi insegnano che la dottrina è un insieme di ideologie più o meno armonizzate, più o meno concatenate, più o meno consequenziali ma non è mai omogenea. La dottrina non è mai omogenea. E quindi questa gente risollevò lo spettro del tradizionalismo oppure di un certo populismo mutuato da certi personaggi e da opere ormai dimenticate: Stirner… le cose più folli uscivano fuori in quel momento».

«L’UNIFICAZIONE CON AN? UN’OPERAZIONE DISSENNATA»

«E allora ci fu una certa determinazione da parte nostra a dire: “Qui bisogna chiarire chi siamo, dove stiamo andando, qual è la nostra progettualità, quali sono i freni e le remore a questa progettualità, è possibile liberarsi di questi freni? È possibile superare questo impasse? come? Per ottenere che cosa?” Quindi il progetto, la strategia, e di conseguenza la tattica, non si delinearono in quel momento ma sorsero come esigenza proprio in quel momento. E in quel momento, per peggiorare le cose, fu effettuata, come colpo di coda dalla classe dirigente, chiamiamola così ma eravamo quattro gatti, dalla classe dirigente residua l’operazione più dissennata che si poteva fare nelle nostre condizioni: il tentativo di unificazione con un movimento analogo come composizione ma assolutamente diverso come intenti e anche come componenti umane, che era quello di Avanguardia Nazionale. Questo tentativo di ibridazione fallì miseramente però coinvolse alcuni di noi al seguito dell’altro movimento in operazioni pazzesche di cui non intendo parlare.

Quando fu bandita la riunione di Bracciano io mi trovavo in Puglia perché stavo portando a termine un’estorsione basata sul sequestro di un banchiere, tale Luigi Mariano. La vicenda ebbe termine con il pagamento parziale del riscatto, il rilascio dell’ostaggio e il mio ritorno a Roma. Perché dico ritorno a Roma? Perché la mia permanenza in Sicilia non era più possibile in quanto per poter gestire il sequestro mi ero dovuto sottrarre a degli obblighi di sorveglianza e quindi ero automaticamente diventato un latitante. Al ritorno a Roma io mi trovai nelle condizione di colui che è stato nominato compare d’anello, testimone a un matrimonio che gli è inviso e si trova nelle condizioni di essere incontrato per strada e vedersi sottrarre il pacco che ha in mano come dote. Io arrivai e questi denari finirono nel calderone comune, calderone che simboleggiava questa unificazione che io non capivo e che nessuno capiva perché non serviva a niente».

«O LA RESA O L’AGIRE IN SENSO RIVOLUZIONARIO»

«Comunque, le ripeto, dopo il sequestro Mariano fui coinvolto in determinate attività con Avanguardia Nazionale e riuscii a salvare l’autonomia e anche la pelle in maniera piuttosto fortunosa e a ritornare in Italia. Nel periodo si tentò di accollarmi determinati fatti criminosi avvenuti proprio nel periodo dell’autunno del 1975, prima della mia partenza dall’estero e fui assolto. Il caso Leighton. Mi meraviglio, in occasione della morte di Tisei, di vedere ancora dei giornali che mi chiamano come responsabile dell’attentato ai coniugi Leighton quando io fui assolto e ancora oggi Tisei continua anche dopo la sua morte a gettare ombre e a inficiare la chiarezza degli avvenimenti.

Allora, io tornai in Italia e a Roma trovai una situazione pazzesca, era l’inizio della primavera del 1976. C’erano dei vecchi ordinovisti, vecchi come militanza ma anagraficamente giovani, più o meno derelitti, abbandonati a loro stessi, confusi. Poi c’erano dei giovani fiancheggiatori dei paesi o delle città vicine tenuti in palmo di mano da coloro che a quell’epoca gestivano ancora i resti del movimento».

— Che vuol dire in palmo di mano?

«Tenuti in considerazione: consultati, convocati, frequentati. E c’erano degli altri militanti invece che vagavano senza costrutto. E allora io avvicinai costoro e prospettai un tipo di iniziativa che mi sembrava l’unica possibile in quel momento. Di possibile c’erano solo due cose: la resa, cioè dire che non serviamo a niente, oppure prospettiamoci, vediamo chi siamo, stabiliamo quale è la nostra identità e vediamo di agire in senso rivoluzionario. Non in modo rivoluzionario, badate bene, in senso rivoluzionario. Perché? Perché la rivoluzione in Italia era possibile, l’Italia stava attraversando un periodo pre-rivoluzionario però noi eravamo quattro gatti estremisti. Per fare la rivoluzione bisogna avere come referente il popolo e noi non avevamo nessun aggancio con la realtà politica e sociale italiana».

«CON LA SINISTRA UN’UNICA DIFFERENZA: NON RICONOSCO LA TERZA INTERNAZIONALE»

«Noi eravamo gli eredi di un movimento d’opinione disciolto o quantomeno non più esistente. Eravamo della gente che pur professando la necessità della rivoluzione sociale, pur professando il rifiuto della condizione borghese, era etichettata ancora come “destra”. Tra me e la sinistra c’è un’unica differenza: io non mi riconosco nella terza internazionale. Quindi il centralismo democratico, e di conseguenza il centralismo operaio, per me sono utopie. Per il resto per me andava benissimo la rivoluzione sociale. Al giorno d’oggi non so neanche come definirmi bene. Al giorno d’oggi se lei parla di “nazionalpopolare” parla di Pippo Baudo. Quindi non so bene come definirmi. La via italiana al socialismo viene professata pure da Craxi al giorno d’oggi. A quell’epoca invece erano cose, non dico nuove, ma abbastanza intatte. Quindi si poteva aspirare ad una via italiana al socialismo e si poteva essere nazionalpopolari senza che la cosa facesse sorridere.

E allora si parlò tra noi e si decise: noi non possiamo essere un gruppo rivoluzionario però possiamo essere un gruppo di dimostrazione, di testimonianza. Noi dobbiamo obbedire a quello che è il primo imperativo dell’azione rivoluzionaria: denunciare la presenza. La costituzione di gruppi antagonisti di gruppi di disturbo, è successiva. La lotta armata è terza. L’attacco alle strutture sociali e alle istituzioni avversarie, è quarta. La costituzione di proprie strutture sociali e proprie istituzioni è quinta. La sostituzione delle strutture proprie nei confronti di quelle avversarie è sesta. Gli atti di guerriglia sono settimi. Difatti è pazzesco quando si sente parlare di guerriglia in Italia. La guerriglia ancora doveva venire. E poi ci sta la guerra. La guerra si fa solo quando si vince matematicamente, quando si è certi di vincere. Ora, in certe rivoluzioni, come in quella d’Algeria, la denuncia della presenza e gli atti di disturbo sono durati tanti anni mentre le fasi conclusive della guerra rivoluzionaria sono durate pochissimo, però ci sono state. In Vietnam invece è stato il contrario. La denuncia della presenza è stata brevissima, gli atti di disturbo brevissimi e la guerriglia prima e la guerra poi sono durate venticinque anni».

«VOLEVAMO RACCOGLIERE I RESTI DI QUELLI CHE LA PENSAVAMO COME NOI»

«Nessuna rivoluzione è uguale a un’altra ma ogni rivoluzione obbedisce a quegli schemi e obbedisce a quelle priorità e a quei punti enunciati da me prima. Da me solo enunciati eh, perché Mao e Che Guevara l’han fatto meglio prima. Le rivoluzioni si differenziano l’una dall’altra proprio per il tipo di priorità che si dà a quei punti e per la durata delle fasi legate a quei punti.

Noi potevamo solo denunciare la nostra presenza e tentare di coagulare, non l’opinione pubblica. Il nostro comportamento che poi è stato imitato in maniera folle e dissennata da altri, aveva una sua motivazione. Noi non dovevamo farci notare dall’opinione pubblica, noi dovevamo raccogliere i resti di coloro che la pensavano come noi e che erano dispersi, confusi da quella diaspora che c’era stata, confusi dagli atteggiamenti contrastanti, contraddittori di coloro che avevano gestito il Movimento.

Io sento molti miei ex amici o molti miei ex commiliti dire al giorno d’oggi, in un’aula di tribunale, delle cose che poi vengono successivamente smentite nell’aula successiva, del tribunale successivo. Una volta si vuole il giudice Occorsio immolato in seguito alla decisione di una specie di loggia massonica. La volta dopo il giudice Occorsio viene immolato per decisione di una raccolta di pazzi scatenati che decide in terra straniera. La volta successiva il giudice Occorsio muore per volontà di Graziani e Massangrande. Sento la prima volta la verità implicita nelle parole di Calore, ieri: “Concutelli scese in Italia in contrasto con la classe dirigente che lasciava all’estero, in contrasto con coloro che ha incontrato in Italia. Concutelli porta un certo tipo di idee che caratterizzano il suo comportamento e influenza con il suo comportamento gli altri”. Signori, io non ho mai rifiutato la paternità della decisione che portò alla morte del giudice Occorsio. Non l’ho mai rifiutata. La sto pagando ma non l’ho mai rifiutata.»

[Dall’interrogatorio di Pierluigi Concutelli nel corso di un’udienza del processo a Ordine Nuovo, 1988]