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«Dateci un elicottero o inizieremo a sparare». L’eclatante rivolta di Porto Azzurro

Redazione Spazio70

È «la rivolta dei Mario», come la ribattezzeranno alcuni giornali, poiché portata avanti dai detenuti Mario Tuti, Mario Ubaldo Rossi, Mario Maroccu, Mario Cappai, Mario Tolu

Porto Azzurro, 25 agosto 1987. Reduce da cinque anni nei «braccetti della morte» dell’articolo 90 aggravato (a seguito dell’omicidio del detenuto Ermanno Buzzi) il neofascista Mario Tuti, in carcere dal 1975 per l’omicidio di due agenti di polizia, sta per guidare la più eclatante sommossa carceraria della storia della Repubblica Italiana. La rivolta dei Mario, come la ribattezzeranno alcuni giornali, poiché portata avanti dai detenuti Mario Tuti, Mario Ubaldo Rossi, Mario Maroccu, Mario Cappai, Mario Tolu e Gaetano Manca. Tutti ergastolani, tutti delinquenti comuni, fatta eccezione per il capo la cui ferita dell’articolo 90 aggravato è ancora fresca e dolorante.

Dopo cinque anni di estrema segregazione, il fascista toscano si trova adesso in una delle strutture più comode e ambite del sistema penitenziario italiano, con un posto di lavoro presso l’ufficio conti correnti. Porto Azzurro, infatti, è considerato un buon carcere dagli stessi detenuti. In altre galere vi è chi farebbe carte false per potervi soggiornare. Ma al Tuti questo non interessa, anzi, egli concepisce quella condizione come una sorta di «contentino», un risarcimento non ufficiale a fronte della condanna in primo grado inflittagli per la strage dell’Italicus, reato per il quale Tuti si è sempre professato innocente (l’assoluzione definitiva arriverà nel 1992). Una simile amarezza è condivisa anche da altri ergastolani, come Mario Ubaldo Rossi, boss della mala genovese, anch’egli profondamente incollerito poiché reduce dalla traumatizzante esperienza dei braccetti.

«SI ALZI DOTTORE, CE NE ANDIAMO!»

Mario Tuti

In quell’afosa aria d’estate aleggia una gran desiderio di rivalsa. Voglia di colpire e di fare del male, ma, soprattutto, voglia di andare via.

Tutto ha inizio come un tentativo di evasione. Decenni di esperienza di crimine carcerario hanno reso gli ergastolani piuttosto organizzati. Porto Azzurro non è un penitenziario di massima sicurezza e con solidi contatti all’esterno delle mura quel manipolo di detenuti riesce a introdurre in carcere due pistole. Una di esse finisce dritta alla tempia del direttore. «Si alzi, dottore. Ce ne andiamo!». Tutto sembra andare secondo i piani, almeno all’inizio.

Il maresciallo preposto al prelevamento della vettura da adibire alla fuga riesce però a scappare e lancia l’allarme. In breve tempo il penitenziario è circondato. Agli aspiranti evasori non resta altro da fare che prendere in ostaggio il direttore assieme ad altre ventisette persone tra guardie, infermieri, e assistenti sociali. Per far capire a tutti che fanno sul serio, i rivoltosi cospargono di liquido infiammabile alcuni ostaggi e li legano alle finestre, pronti a farli diventare visibili torce umane a ogni minima azione dei cecchini. Oltre ai coltelli e alle pistole gli ergastolani dispongono anche di ordigni rudimentali e bottiglie molotov fabbricate con alcol etilico e altre sostanze solventi e disinfettanti trafugate dall’infermeria, divenuta nel frattempo quartier generale della rivolta. Qualsiasi tentativo di irruzione si trasformerebbe inevitabilmente in un massacro.

LA RICHIESTA DI UN ELICOTTERO PER POTER ABBANDONARE L’ISOLA

I cavi telefonici legano il gruppo di Tuti ad agenti e giornalisti in trepidante attesa al di là delle mura. Di seguito riportiamo le parole del capo della rivolta rilasciate nella notte a un cronista: «Sono uno di quelli che sono qua padroni dell’infermeria del carcere. Quello che voglio spiegarle, in modo che non ci sia alcun dubbio, è questo: noi ci siamo impossessati di tutta la portineria del carcere. Ci sono state delle guardie che si sono sentite male e noi le abbiamo lasciate, avendo noi in mano il direttore, una assistente sociale, lo psicologo ed una ventina di guardie. Poi ci siamo ritirati verso l’infermeria, visto che il comandante delle guardie, doveva andare a prendere una macchina, ci ha tradito, non è tornato e ha dato l’allarme. Ci siamo allora portati dietro i nostri prigionieri. L’unica maniera ora per andarcene e che per noi è soddisfacente è l’elicottero. E’ da più di otto ore che stiamo trattando senza esito. Ora sembra non stiano trovando il pilota dell’elicottero. Noi siamo padroni dell’infermeria. L’abbiamo praticamente minata, perché oltre alle pistole abbiamo dell’esplosivo. Abbiamo inzuppato alcune guardie di alcol e abbiamo legato altre guardie agli accessi dell’infermeria».

La richiesta dei malviventi è piuttosto ambiziosa: in cambio della vita degli ostaggi chiedono un elicottero per poter abbandonare l’isola. I rappresentanti delle istituzioni non hanno alcuna intenzione di piegarsi fino a quel punto, ma al tempo stesso sono consapevoli del pericolo che incombe su quelle vite umane barbaramente appese alle finestre. Tra gli ostaggi c’è anche una donna. Le squadre speciali sono pronte per l’irruzione, ma, per evitare spargimenti di sangue, la strada più prudente da seguire è quella del dialogo. Intanto però, il tempo scorre veloce.

L’IDEA DI PUNTARE SULLA STANCHEZZA DEI DETENUTI

L’interno del carcere di Porto Azzurro (fonte: poliziapenitenziaria.it)

Secondo giorno di rivolta. Sull’isola è giunto anche un uomo che la psicologia dei terroristi la conosce bene: Umberto Improta, già protagonista della cattura di Concutelli e della liberazione del generale Dozier. Accanto al superpoliziotto c’è un’altra figura autorevole della lotta alla criminalità in Italia, il magistrato Domenico Sica, noto per importanti indagini su alcuni dei più torbidi misteri del nostro Paese, dal caso Sindona alla Loggia P2 di Licio Gelli. I due rappresentati dello Stato provano ad avvicinarsi a piedi alla struttura. L’intento del giudice è quello di impostare un dialogo diretto, parlando da uomo a uomo alla mente del gruppo. Mario Tuti però non accoglie in modo amichevole i suoi interlocutori. Irritato dal repentino avvicinamento senza preavviso, il geometra empolese spara due colpi di pistola, a scopo intimidatorio, dalla finestra dell’infermeria. La situazione sembra ad un punto morto ed è estremamente tesa.

Nel frattempo Maurizio Papi, sindaco di Porto Azzurro, lancia un’iniziativa intitolata «Un elicottero per la vita». Il primo cittadino promuove una raccolta di firme e si schiera senza mezze misure contro la linea della fermezza indicendo una manifestazione pubblica per far sì che le richieste dei rivoltosi vengano subito accolte. Le vite degli ostaggi, secondo i manifestanti, rappresentano una priorità assoluta. Del resto, per dei reparti operativi muniti di radar e apparecchiature computerizzate, non dovrebbe essere poi così difficile rintracciare i malviventi subito dopo la fuga.

L’opinione pubblica in Italia si divide in due fronti opposti, mentre il telefono dell’infermeria del carcere sta diventando rovente. Si discute, si propone, si ragiona, ma non si giunge a nulla. Il Tuti è irremovibile. Le forze dell’ordine temporeggiano. Con il passare dei giorni prende corpo l’idea di puntare sulla stanchezza dei detenuti. Gli ergastolani sanno benissimo che a pochi metri da loro ci sono squadre speciali armate fino ai denti. L’ordine di sfondare le porte del carcere potrebbe scattare da un momento all’altro. Quante ore a notte possono dormire dei rivoltosi barricati in un simile clima di tensione? Prima o poi mostreranno segni di cedimento.

TUTI SI ARRENDE

Il 30 agosto, dopo un lungo vertice a Palazzo Chigi l’agenzia Ansa comunica la posizione del governo: ogni richiesta dei sequestratori è tassativamente respinta. Ormai il verdetto è stato emesso in via ufficiale, presso il penitenziario di Porto Azzurro non atterrerà nessun elicottero. L’unica concessione che lo Stato intende fare ai rivoltosi è la promessa di un regolare trattamento carcerario, senza ritorsioni e nel pieno rispetto delle leggi vigenti. L’invito che viene fatto al gruppo di Tuti è nuovamente quello della resa. Per i rivoltosi, la rinuncia immediata a ogni azione cruenta rappresenterebbe l’unica strada per poter usufruire della nuova legge Gozzini. Varata nel 1986, essa consente ai detenuti di scontare modalità di detenzione alternative al carcere, come il lavoro esterno e l’affidamento ai servizi sociali. Un inutile bagno di sangue non farebbe altro che precludere ogni speranza di poter godere un giorno di tali benefici.

Il primo di settembre, dopo otto giorni di estenuanti trattative, prevalgono il buon senso e il raziocinio. Tuti si arrende e con rammarico consegna gli ostaggi nelle mani dei magistrati. L’incubo di sette notti di fine estate finisce così, a colpi di logica e ragionamenti.