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Amos Spiazzi, non era Papadòpulos

Umberto Berlenghini

Spesso condannato in primo grado, Spiazzi è sempre stato assolto in secondo e in Cassazione. Di sé diceva di «essere stato l’unico fesso a pagare»

La telefonata l’ha fatta lui! Ecco chi ha fermato, quella notte, il golpe Borghese: è stato il capitano d’artiglieria Amos Spiazzi di Corte Regia. Bastava chiederglielo e lui ti raccontava che quel 7 dicembre 1970 era pronto ad andare a un ricevimento di gala quando all’improvviso ricevette un ordine da «non si saprà mai bene chi», di mettersi in movimento con le sue truppe verso Sesto San Giovanni: era scattata «l’esigenza triangolo», un piano partorito dall’autorità politica in previsione di possibili scontri di piazza, dove anche l’Esercito aveva compiti di ordine pubblico. Non avendo tempo per cambiarsi, come manco «007», Spiazzi infilò la mimetica direttamente sopra l’elegante divisa nera da cerimonia e si mise in viaggio alla testa di una colonna militare. Prima di partire chiamò Elio Massagrande, suo ex sottoposto in artiglieria, buon amico e numero due del Movimento Politico Ordine Nuovo, il quale gli raccontò che il principe Junio Valerio Borghese aveva organizzato una manifestazione, dai contorni però ambigui, contro l’imminente visita a Roma del maresciallo Tito. Per Spiazzi fu tutto chiaro: era una trappola ordita ai danni dell’amato e venerato ex Comandante della Decima Mas, in quel periodo intento a organizzare a livello nazionale delle manifestazioni che avrebbero portato inevitabilmente a degli incidenti e che avrebbero giustificato così l’intervento dell’Esercito. In previsione di tutto questo, Spiazzi chiamò Borghese e gli chiese di rinunciare alla sua iniziativa. Nel frattempo giunto alle porte di Sesto San Giovanni, la «Stalingrado d’Italia», Spiazzi ricevette l’ordine di rientrare in caserma. Erano le 2.00, era tutto finito.

Nato nel 1933 a Trieste, Spiazzi è un predestinato visto che anche il padre è un generale d’artiglieria pluridecorato con ben sette medaglie fra argento e bronzo; in una foto che lo ritrae diciassettenne, Spiazzi jr. ha una baionetta fra i denti e una pistola in mano, sta giocando nel giardino di casa, probabilmente in vista dell’entrata nell’accademia militare di Modena che avviene alla fine del 1952. Due anni dopo, incurante dell’inopportunità che un ufficiale italiano possa essere coinvolto in fatti politici, insieme a uno sparuto gruppo di suoi vecchi amici monarchici veronesi, raggiunge una Trieste scossa dalla rivolta antitina. Viene catturato, imprigionato e bastonato per un’intera settimana.

LA «ROSA DEI VENTI»

Spiazzi, monarchico da sempre come suo padre, crede nello Stato organico di tipo dogale, ispirato cioè alla Repubblica di Venezia, una monarchia elettiva e non ereditaria. Con la fine del 1970 arriva la promozione a maggiore e Spiazzi inizia a creare un’organizzazione di ufficiali e civili, tutti fervidi anticomunisti, chiamata «Rosa dei Venti» in omaggio alla difesa su tutti i fronti dell’Europa dalla minaccia sovietica. Le indagini della Magistratura sulla Rosa dei Venti hanno il via grazie a un bizzarro medico spezzino che consegna alla Polizia una borsa contenente dei documenti con un piano per un colpo di Stato. Spiazzi viene arrestato il 13 gennaio 1974, cioè un paio di settimane dopo la sua promozione a tenente colonnello, raggiungendo così il poco invidiabile primato di essere il primo ufficiale dell’Esercito della Repubblica finito sotto inchiesta della Magistratura ordinaria.

Vito Miceli

Si giustifica sostenendo che l’organizzazione è perfettamente legale; i giudici chiedono a Vito Miceli, capo del SID, se sia vero e se ne sa qualcosa ma Miceli nega anche se ammette che una vera organizzazione, diversa da quella di Spiazzi, effettivamente esiste, ma non può parlarne: si tratta di Gladio. È per questo che Miceli finisce in prigione con l’accusa, ingiusta, di aver creato un SID parallelo: in realtà sta solo difendendo un segreto di Stato.

I giudici vedono nella Rosa dei Venti una sorta di «doppio servizio». A proposito di Gladio l’ormai generale Spiazzi affermava di esserne venuto a conoscenza come un qualsiasi cittadino italiano dopo le rivelazioni di Giulio Andreotti: l’unica differenza fra Spiazzi e il cittadino italiano è che il primo era a conoscenza di un «piano di sopravvivenza» pronto a contrastare un’eventuale invasione di un esercito straniero. Riguardo Borghese, Spiazzi era certo che fosse stato avvelenato, forse con una pasticca di cianuro fatta sciogliere nel caffè durante un colloquio che Borghese aveva avuto con il capitano del SID Antonio La Bruna, episodio questo mai provato che contrasta con la testimonianza di Elena Borghese la quale ha sempre escluso che il padre fosse deceduto per mano assassina.

«LEI DI CHE GOLPE È?»

 

Sul punto Spiazzi è però sempre stato irremovibile, anche perché di La Bruna aveva una pessima opinione nata quando, ai tempi più che turbolenti del servizio svolto da Spiazzi in Alto Adige, malmenò il capitano del SID, allora maresciallo dei Carabinieri, dopo aver scoperto certe sue operazioni per nulla in linea con i suoi doveri.

Fino al luglio del 2003 Spiazzi totalizza sei anni di carcerazione preventiva e viene inquisito e/o processato per numerosi delitti avvenuti negli anni Settanta, dal «caso Ludwig» all’uccisione dell’esponente di «Terza Posizione» Francesco Mangiameli; dai fatti di Pian del Rascino alla strage della questura di Milano; dalla strage di Brescia a quella di Bologna. E naturalmente c’è il processo del ‘77/’78 che ingloba i tre tentativi, o presunti tali, di colpi di Stato avvenuti fra il 1970 e il 1974 dove, come rammentava Spiazzi, al momento delle presentazioni fra imputati, seguiva sempre la domanda: «Lei di che golpe è?».

Amos Spiazzi

Spiazzi ricordava che alcune accuse rivolte contro di lui avevano il sapore della mistificazione, la prova di una volontà persecutoria contro di lui, altrimenti come spiegare, si chiedeva, la contestazione rivoltagli dall’accusa che la notte del «Tora Tora», a Verona, avrebbe equipaggiato un Macchi 416 facendo salire a bordo una trentina di parà e sistemando una bomba atomica sotto la pancia dell’aereo, per poi decollare verso Roma, destinazione Vaticano?

E, continuava Spiazzi, alla spiegazione che il Macchi 416 è un biposto, quindi impossibile farci salire trenta parà, veniva zittito con l’ipotesi che avrebbe potuto trasportare quei parà facendo la spola Verona-Roma-Verona per trenta volte.

Spesso condannato in primo grado, Spiazzi è sempre stato assolto in secondo e in Cassazione. Di sé diceva di «essere stato l’unico fesso a pagare». Non è vero. Non è stato l’unico.

FONTI: Claudio Vitalone, Stralcio della requisitoria del processo sul golpe Borghese, Roma 1978, Prima Corte di Assise di Roma Sentenza di 1° grado, 14 luglio 1978, Prima Corte di Assise di Roma Sentenza di appello, 27 novembre 1984, Sergio Zavoli La notte della Repubblica (trasmissione tv) Rai 1989, Vivendo Parlando-Il testimone Il golpe Borghese (trasmissione tv) TV2000 14 dicembre 1999