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Vittorio Bachelet: quando il terrorismo colpì alla Sapienza

Tommaso Nelli

Dopo l'omicidio la comunità universitaria aderirà numerosa alla manifestazione di solidarietà contro il terrorismo promossa dentro la Sapienza

Roma, università La Sapienza, facoltà di Scienze Politiche. Due aule al piano terra raccontano un capitolo di storia degli anni Settanta. Nobile e doloroso. La prima è intitolata ad Aldo Moro, che qui insegnava Istituzioni di Diritto e Procedura penale e che sempre qui era atteso in quel 16 marzo 1978 se il destino in via Fani non avesse imposto alla sua vita una piega irreversibile. La seconda, la più grande in assoluto con i suoi 360 posti a sedere, ricorda invece un altro docente illustre: Vittorio Bachelet. Giurista, professore ordinario di Diritto amministrativo e vicepresidente del CSM, proprio tra quelle mura a lui molto care il 12 febbraio 1980, a pochi giorni dal suo cinquantaquattresimo compleanno (era nato a Roma il 20 febbraio 1926), Bachelet fu colpito a morte dagli spari di Bruno Seghetti e Anna Laura Braghetti. Due nomi per una sigla temuta e famigerata: Brigate Rosse.

Non era la prima volta che la morte compariva alla Sapienza. Il 27 settembre 1966 lo studente Paolo Rossi era rimasto vittima di uno scontro con studenti di destra, sulla scalinata della facoltà di Lettere, ma mai si era palesata con le sembianze del terrorismo. Almeno fino alle 11:40 di quella fredda mattina d’inverno.

«BACHELET L’ABBIAMO GIUSTIZIATO NOI. PRESTO SEGUIRÀ UN COMUNICATO»

Vittorio Bachelet ha da poco terminato la sua lezione e s’incammina verso il primo piano della Facoltà. Non ci sono molti studenti in giro. È con la sua assistente che, per uno strano scherzo del destino, compie gli anni proprio in quel giorno: Rosaria Bindi detta Rosy, futura ministra della Repubblica. Mentre i due stanno scambiando alcune parole, una donna, avvolta in un loden chiaro, da dietro, poggia una mano sulla spalla del professore. È un attimo. Appena Bachelet si gira, una serie di proiettili calibro Winchester 32 lo raggiungono al ventre e al torace facendolo rotolare in fondo alle scale. Dove, ferito e inerme, riceve il colpo di grazia alla nuca dalla Beretta 7,65 dell’uomo che accompagna la sparatrice: alto 1,65 circa, baffi scuri, giacca a vento chiara e cappello di lana a strisce rosse. Sul luogo del delitto la polizia rinverrà poi nove bossoli.

In pochi attimi i killer prendono la borsa di Bachelet con i documenti e, complice il caos fomentato anche dalla falsa notizia di una bomba dentro l’ateneo, si dileguano a bordo di una Fiat 131, rubata qualche giorno prima, che li sta aspettando fuori nella vicina uscita di viale Regina Elena. Poco dopo intervengono le forze dell’ordine, che bloccano tutti gli ingressi della città universitaria e iniziano a schedare i presenti. Vengono ritirate e fotocopiate migliaia di carte d’identità che saranno restituite nei giorni successivi, talvolta, secondo quanto ci è stato raccontato da chi c’era, dopo odissee burocratiche.

Intanto nel primo pomeriggio una telefonata al quotidiano La Repubblica rivela la matrice dell’attentato. «Ascoltatemi bene. Qui Brigate Rosse. Bachelet l’abbiamo giustiziato noi. Presto seguirà comunicato». Il volantino viene recuperato tre giorni dopo da un cronista de Il Messaggero nel gabinetto di un bar vicino, Il Tritone. Nello scritto si definisce Bachelet «massimo artefice della riconversione della magistratura a puro strumento anticomunista»; si accusa il CSM e la direzione del Ministero di Grazia e Giustizia di essere «asserviti al programma criminale della DC di annientamento delle organizzazioni comuniste combattenti e di distruzione dell’antagonismo di classe»; si sostiene la necessità di «individuare e colpire il settore operativo della magistratura antiguerriglia».

«HO GIÀ ACCETTATO L’IDEA DI POTER ESSERE VITTIMA DI UN ATTENTATO»

La descrizione fisica della donna – venti-venticinque anni, alta circa 165 centimetri – concentra i sospetti degli investigatori su Barbara Balzerani, la compagna Sara, al tempo anche compagna di vita del capo delle BR, Mario Moretti, ritenuta una delle donne più pericolose dell’organizzazione. Ma bisogna aspettare il 27 maggio 1980 per una prima svolta. A Roma, in un bar di piazza Sforza Cesarini, a due passi da corso Vittorio Emanuele, i carabinieri arrestano tre brigatisti. C’è anche una donna, Anna Laura Braghetti, nome di battaglia Camilla. Otto giorni prima, a Napoli, nello scontro a fuoco seguente l’attentato dove era morto l’assessore regionale della Democrazia Cristiana Pino Amato, erano scattate le manette per Bruno Seghetti, il compagno Claudio.

Poco meno di due anni più tardi, il 28 gennaio 1982, un blitz dei NOCS scopre a Padova il nascondiglio dove le Brigate Rosse tengono prigioniero il generale americano della Nato James Lee Dozier. Fra gli arrestati, anche Antonio Savasta ed Emilia Libera. I due accettano di collaborare con la giustizia e nel corso delle udienze del Moro-bis – che accorpa l’inchiesta sulla strage di via Fani con quella sui crimini commessi dalle BR fino a quel momento – indicano i nomi degli assassini di Bachelet. «Fu Iannelli (un altro brigatista, ndr) a raccontarmi che nell’azione sparò la Braghetti. Me lo raccontò al mare, nell’estate dell’80, mi sembra quando eravamo a Tor San Lorenzo», dice in aula la Libera il 16 aprile 1982. Versione confermata da Savasta il 5 maggio 1982: «So che c’erano Seghetti e Braghetti». I due avevano avuto un ruolo anche nel sequestro Moro. Seghetti era al volante della Fiat 132 che lasciò via Fani con a bordo l’ostaggio. La Braghetti, oltre a fingere di essere l’irreprensibile signora Altobelli dell’appartamento di via Montalcini adibito a prigione del popolo, è anche la vivandiera del Presidente durante i cinquantacinque giorni. Per questi e altri misfatti il 24 gennaio 1983 entrambi vengono condannati all’ergastolo.

Sebbene in più di un’azione sanguinaria delle BR siano emersi dubbi – dalle fallacità della versione ufficiale del caso Moro, al memoriale Morucci-Faranda, fino alle insolite armi usate per l’omicidio del tenente colonnello dei Carabinieri Antonio Varisco – attenendosi agli atti processuali, l’assassinio di Bachelet sarebbe maturato esclusivamente negli ambienti brigatisti. Secondo la Braghetti, dal 2002 in libertà condizionale, il vicepresidente del CSM fu scelto perché raggiungibile senza troppe difficoltà. «Era un bersaglio facilissimo, non aveva scorta e faceva sempre gli stessi percorsi», scrive la br nel libro Il Prigioniero (Feltrinelli, 2003). Parole che riprendono il fatalismo dello stesso docente che, dopo il 9 maggio 1978, viveva con una sorta di premonizione addosso come ebbe a dichiarare l’allora capo ufficio stampa del CSM, Luigi Scotti. «Bachelet aveva rifiutato più volte la scorta che gli era stata proposta. “Preferisco fare due passi” […]. “Ho già accettato l’idea di poter essere vittima di un attentato”».

«LA RIVOLUZIONE NON SI PROCESSA»

Una consapevolezza derivata da una stagione di tensioni e violenza, nella quale le Brigate Rosse colpivano al cuore dello Stato. All’indomani del processo ai loro capi, Alberto Franceschini e Renato Curcio arrestati a Pinerolo l’8 settembre 1974, le Br coniarono lo slogan La rivoluzione non si processa e dettero il via a una campagna sanguinaria contro i simboli delle istituzioni durante la quale, prima di Bachelet, erano stati uccisi ventidue agenti di polizia, dodici carabinieri e tre magistrati: il procuratore generale Francesco Coco (Genova, 8 giugno 1976); il direttore dell’Ufficio VIII° della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, Riccardo Palma (Roma, 14 febbraio 1978); il Direttore generale degli Affari penali, Girolamo Tartaglione (Roma, 10 ottobre 1978).

Agli occhi di Moretti e compagni anche Bachelet personificava il potere costituito. Dopo trascorsi giovanili nella FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), dal 1964 al 1973 era stato presidente dell’Azione Cattolica con tanto di prima nomina impartita da Papa Paolo VI. Eletto consigliere comunale nelle file della Democrazia Cristiana alle elezioni amministrative di Roma del giugno 1976, il 21 dicembre dello stesso anno era stato nominato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. In pratica, la seconda carica del potere giudiziario dopo il presidente della Repubblica. Eliminarlo significava proseguire con durezza e senza sconti la lotta armata che avrebbe dovuto portare alla sconfitta dell’ordine democratico-borghese e all’affermazione del proletariato.

Un’idea boomerang, come quella di uccidere Moro invece di rilasciarlo, che verrà respinta dagli stessi ambienti nei quali le Brigate Rosse erano convinte di pescare consensi. Per esempio la comunità universitaria, che in quel 12 febbraio 1980 aderì numerosa alla manifestazione di solidarietà contro il terrorismo promossa dentro la Sapienza. Una partecipazione massiccia che accentuerà l’isolamento dei brigatisti e screditerà ulteriormente la follia di chi pensava di cambiare il mondo con l’uso della violenza.