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Curcio: «I sindacalisti Pci nelle fabbriche? Ci conoscevano»

Redazione Spazio70

La rievocazione del periodo 1970-71 da parte del leader delle Brigate rosse

Allora, uscito dalla costola di Sinistra proletaria, uno sparuto gruppetto si ritrova a dar vita alla Brigata rossa, che presto si trasformerà nelle Brigate rosse…

«In sintesi è così. C’è stato però un periodo di transizione in cui le vecchie attività si accavallavano con le nuove iniziative. Mentre compivamo le prime azioni contro i capetti della Pirelli, io continuavo a muovermi nell’area dei collettivi di Sinistra proletaria. Proseguivamo gli interventi nelle scuole serali per i lavoratori e rimanevamo attivi nelle occupazioni di case dei quartieri popolari, soprattutto al Lorenteggio, Quarto Oggiaro e Mac Mahon. Nell’ottobre ’70 feci uscire l’ultimo numero della rivista “Sinistra proletaria”, ma i nostri “fogli di lotta” continuarono ad essere diffusi fino al febbraio ’71, quando il primo ciclo di attentati Br era già in atto. Poi, nella primavera di quell’anno, pubblicammo due numeri di un altro giornale che segnò il passaggio al nuovo corso: “Nuova Resistenza”. L’idea era quella di documentare le prime azioni armate in Europa dando spazio al dibattito che si andava creando attorno a queste iniziative. Tra l’altro, pubblicammo una nostra intervista ai compagni della Raf, un documento inedito dei Tupamaros, i testi delle trasmissioni radio pirata dei Gap di Feltrinelli, i nostri primi volantini della Brigata rossa e delle successive Brigate rosse».

LA MOLOTOV «A TEMPO» DEL PARTIGIANO

Renato Curcio

— Nelle vostre intenzioni di allora cosa doveva essere una Brigata rossa?

«La Brigata inizialmente era il nucleo elementare di un progetto organizzativo in cerca di definizione: nessuno di noi aveva ben chiaro cosa dovesse essere e, del resto, non cercammo neppure di far sembrare che ci fosse chiaro. Di fatto, il primo gruppo che ha dato vita alle Brigate rosse comprendeva una dozzina di persone: Margherita, Franceschini io, Pierino Morlacchi, che era uno dei protagonisti della vita di quartiere del Lorenteggio, e alcuni operai Pirelli, tra cui Maurizio Ferrari.»

— Malgrado questa vaghezza ideologico-organizzativa siete partiti con la vostra prima azione: quale fu?

«Il progetto di “esproprio proletario” con cui dovevamo mettere alla prova i compagni venne abbandonato. Invece riprendemmo l’idea iniziale: fottere il Pellegrini [capo dei servizi di vigilanza della Pirelli, ndr]. Cioè bruciargli l’auto. Lo avevamo seguito all’uscita della fabbrica sino alla sua abitazione: posteggiava sempre la macchina sotto casa. Ci preparammo. Un ex partigiano, amico di Feltrinelli, ci aveva insegnato a costruire una specie di molotov a tempo: una tanichetta piena di benzina, un preservativo con dentro dell’acido solforico che lo corrodeva piano piano e poi entrava in contatto con una miscela di zucchero e potassio incendiando la benzina. Se si voleva far durare più a lungo il tempo dell’innesco bastava usare un preservativo più spesso o due preservativi accoppiati. Dunque, una notte il nostro piccolo commando si avvicinò alla vecchia e sgangherata auto di Pellegrini e Margherita piazzò la tanichetta. Io facevo da palo. Cuore in gola per qualche minuto perché il preservativo resistette più del previsto. Poi la fiammata. A ripensarci oggi fu un’azione divertente e grottesca. Noi eravamo dei principianti inesperti, assolutamente goffi. Con quel gesto comunque si può dire che presero vita le Brigate rosse.»

«ROZZI O INCOMPRENSIBILI? PURTROPPO RIUSCIMMO A ESSERE ENTRAMBE LE COSE»

— L’azione venne rivendicata?

«Sì e fu il nostro primo volantino dedicato alla firma di un attentato. Venne distribuito alla Pirelli e in fabbrica cominciarono a parlare molto di noi. Insomma, fu un gran successo che ci spinse a continuare su quella strada. Tra l’inverno ’70 e la primavera ’71 compimmo decine di azioni di quel tipo, tra cui quella un po’ più elaborata dei pneumatici bruciati sulla pista prove di Lainate.»

— I volantini li scrivevi tu?

«In genere sì. Ero quello che redigeva il testo. Lo facevo dopo aver lungamente ascoltato il parere degli operai e dei compagni che erano stati direttamente coinvolti nella vicenda. Il mio disegno era quello di rilanciare gli slogan raccolti in fabbrica aggiungendovi le nostre analisi. Guardate, scrivevo, dobbiamo cominciare a pensare in modo nuovo le lotte operaie: proponiamo un’organizzazione meno aperta e più guerrigliera del potere operaio. Ne veniva fuori una scrittura povera che voleva essere efficace. Spesso siamo stati criticati per quel linguaggio. “Quanto siete rozzi!”, ci hanno detto in tanti. Ma io mentre scrivevo avevo sempre in mente una chiacchierata fatta con un esponente dei Black Panthers in esilio ad Algeri, il quale, ridacchiando, ci aveva mosso una critica severa: “Quando parlate di ciò che avviene nei quartieri e nelle fabbriche siete così preoccupati di riportare tutto nei vostri schemi ideologici che non vi accorgete di quanto diventate incomprensibili…”. Meglio essere rozzi che incomprensibili, allora mi dicevo. Purtroppo, spesso, riuscimmo ad essere insieme rozzi e incomprensibili.»

— Tu partecipavi sempre anche agli attentati?

«Su questo argomento ci furono lunghe discussioni. Alcuni compagni erano dell’avviso che dovevo essere tenuto fuori dalle azioni a rischio perché servivo per redigere i giornali, i fogli di lotta, i volantini. In più io tenevo rapporti con molta gente diversa: operai, sindacalisti, proletari dei quartieri popolari milanesi, vari orfani del ’68 che avevano sciamato un po’ dappertutto. Una mia eventuale cattura, si pensava, poteva nuocere a molti. D’altra parte, personalmente, premevo per partecipare e, poco a poco, si affermò la tesi che non bisognasse disgiungere il braccio dalla mente. Non ci sembrava una cosa giusta, tanto più che criticavamo quei gruppi come Potere operaio e Lotta continua che avevano i loro «bracci armati» separati dalle organizzazioni politiche. Così, all’inizio, sono stato un po’ in disparte, ma presto ho cominciato a partecipare agli attentati come gli altri. Comunque in quel periodo non avevamo problemi di «mano d’opera» perché quando si trattava di compiere un’azione punitiva contro un capetto di fabbrica c’erano decine di nostri compagni operai che chiedevano di partecipare.»

— Come venivano diffusi i vostri volantini?

«In fabbrica, nei modi più semplici: distribuiti a mano durante i cortei interni, lasciati sui tavoli degli uffici sindacali, negli spogliatoi, sulle linee di montaggio. Ogni tanto qualcuno inventava un nuovo metodo più o meno ingegnoso: come quello di infilarli nei tubi della posta pneumatica facendoli arrivare direttamente sui tavoli degli impiegati e dei dirigenti. Noi all’epoca non eravamo ancora dei clandestini. Nel movimento ci conoscevano tutti. E in fabbrica molti, compresi i sindacalisti del Pci e gli operai che aderivano alle altre formazioni extraparlamentari, sapevano chi eravamo e anche cosa facevamo. Partecipavamo a dibattiti pubblici. Abitavamo in appartamenti affittati col nostro vero nome. Agivamo quasi allo scoperto, senza molte cautele. Ma le Br erano nate.»


Tratto da: Renato Curcio, «A viso aperto», Intervista di Mario Scialoja – Mondadori, 1993.